Valerio Tramutoli
1. La prospettiva nazionale.
I dati ampiamente confermati anche dalla relazione annuale del Presidente della CRUI Tosi forniscono un quadro abbastanza preoccupante dello stato attuale del sistema pubblico della formazione e della ricerca in Italia.
Nonostante un aumento di oltre il 50% degli studenti laureati (da 150.000 nel 1999 a 230.000 nel 2003), il riconoscimento internazionale dei risultati eccellenti ottenuti dai ricercatori italiani (Nature 430, 311–316; 2004), i finanziamenti al sistema universitario italiano, da sempre ai livelli più bassi d’Europa, sono, negli ultimi anni ulteriormente diminuiti.
Dal 2001 l’aumento dei trasferimenti ordinari alle Università statali è sistematicamente superato dai costi (scaricati a partire dal 2001 sui bilanci degli Atenei) degli aumenti stipendiali e dall’inflazione. Nel 2003 l’aumento dei finanziamenti dello 0,2% si è tradotto, in termini reali, in una riduzione di oltre il 4% rispetto all’anno precedente.
L’aumento del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) previsto nella finanziaria 2005 (a fronte dei consistenti finanziamenti erogati alle Università private) è insufficiente anche al solo mantenimento delle spese correnti e, insieme agli ulteriori provvedimenti contenuti nella Finanziaria (tetto del 2% sulle spese, limite del 90% del FFO per le spese del personale) e nel DL del 21 Gennaio u.s.) riduzione da 3 a 1 anno del periodo di conferma dei ricercatori) prefigura nei fatti un blocco indefinito delle assunzioni (per mancanza di risorse) che porteranno rapidamente molte università (soprattutto le più piccole e soprattutto al Sud) all’impossibilità di garantire ulteriormente una formazione universitaria degna di questo nome.
1.1. La Conoscenza Bene Comune.
La progressiva riduzione degli investimenti pubblici (quelli privati sono da sempre stati risibili se si escludono quelli che, prima della privatizzazione, facevano alcune grandi imprese nei settori della chimica, della meccanica di precisione, dell’elettronica) è solo uno degli elementi di tale processo anche se rischia di diventarne lo strumento decisivo.
La cultura come valore, la conoscenza come strumento di emancipazione sociale e di partecipazione democratica sembrano oggi, nelle intenzioni del governo, il nemico da battere, il valore in sè da trasformare in bene strumentale, rivolto piuttosto a rispondere ad una domanda, che già non è più di alta formazione ma, più spesso, di formazione professionale a basso costo e di breve durata.
Si vogliono la scuola e l’università come fabbriche di profili professionali da costruire rapidamente e, possibilmente, con poca spesa e fatica. Strutture leggere con programmi e docenti precari da poter assumere just in time secondo le mutevoli esigenze del mercato.
Si vuole la ricerca come sistema di semplice supporto alle attività delle imprese. Anche qui l’innovazione tecnologica intesa come semplice trasferimento di conoscenze. Se va bene innovazione di processo, non più di prodotto. Investimenti di corto respiro che non riconoscono il valore, anche economico sul medio periodo, della ricerca libera e di frontiera quella che da sempre ha determinato, attraverso la innovazione di prodotto, l’impatto più grande sullo sviluppo di Paesi che da sempre (come il Giappone e gli USA) o più di recente (come la Finlandia, l’India e la Cina) hanno operato questa scelta.
Per questo chiediamo di tradurre in azioni concrete le vuote parole che da ogni parte si sentono contro la perdita di competitività del nostro Paese, quando è del tutto evidente che non sulla riduzione del costo del lavoro (sulla quale non solo in Cina, ma anche nell’Europa allargata troviamo già facile concorrenza) ma sulla scuola, la ricerca e l’alta formazione si gioca la speranza per l’Italia di rimanere competitiva sullo scenario internazionale garantendo al contempo più lavoro e di migliore qualità alle future generazioni.
Per questo chiediamo a tutte le forze politiche di porre il tema della Conoscenza come Bene Comune al centro dei loro programmi di governo. Proprio perché vediamo davanti a noi la fine possibile di un sistema pubblico di formazione che, pur nei suoi limiti, aveva dimostrato, anche in rapporto ai sistemi operanti in altri paesi, dalla scuola per l’infanzia all’università, la sua efficacia nel formare coscienza critica e conoscenze di base facilmente spendibili (proprio perché non meramente specialistiche e/o “professionalizzanti”) anche in un mercato del lavoro mutevole ed in continua evoluzione.
1.2. I nuovi ordinamenti didattici.
Anche per questo, la FLC-CGIL ha sostenuto con forza la mobilitazione delle scuole e delle università contro le iniziative legislative del Ministro Moratti e contro la politica di tagli al sistema pubblico della formazione perseguita fin dall’inizio della legislatura e confermata nella sostanza anche dall’ultima Finanziaria.
Delle riforme (Berlinguer e Bassanini) avviate con le migliori intenzioni dal centrosinistra misuriamo oggi i limiti e il varco che esse hanno involontariamente aperto agli interventi legislativi della Moratti i cui effetti, ben più dirompenti, già investono intere generazioni di studenti che non potranno comunque beneficiare di eventuali futuri ripensamenti in sede legislativa.
La riforma degli ordinamenti didattici (il cosiddetto 3+2) applicata nell’ambito della nuova Autonomia Universitaria e del nuovo sistema di finanziamento degli Atenei (con quote di compensazione che portavano gli Atenei a contendersi l’un l’altro gli studenti) ha portato con tutta evidenza (grazie anche alla interpretazione tutta ad uso interno che le singole Università spesso ne hanno dato) ad un proliferare di Corsi di Laurea triennale e specialistica dai titoli accattivanti spesso infarciti da una miriade di micro-insegnamenti che ha portato ad un sostanziale aumento del carico didattico per i docenti, e di studio per gli studenti, spesso in assenza di un reale progetto formativo.
Essa, dopo una prima fase nella quale ha consentito di laureare rapidamente un gran numero di studenti (attardati per la gran parte nei vecchi corsi di laurea quinquennale) mostra oggi con evidenza i suoi limiti.
Se ne è accorto il mondo del lavoro (in particolare quello delle professioni) che, dopo averne sostenuta la necessità, ha quasi subito cominciato a guardare con sospetto ai nuovi laureati tornando a preferire percorsi di formazione on the job molto più adattabili di quelli universitari alle esigenze aziendali governate da dinamiche di mercato sempre più rapide.
Se ne sono accorti gli studenti se è vero che più dell’84% (con incidenze fino al 95%) dei laureati triennali decide di proseguire comunque gli studi per conseguire la laurea specialistica.
Appare pertanto urgente una valutazione di merito sugli esiti e qualche ripensamento rispetto agli obiettivi iniziali, forse, sicuramente rispetto al modo in cui la riforma del 3+2 è stata poi realizzata.
La riforma degli ordinamenti didattici proposta dal Governo interviene invece a istituire il cosiddetto percorso a Y (1+2+2) prima ancora che sia stata fatta una valutazione di merito sugli esiti del 3+2. Essa estende dalla scuola secondaria all’Università un modello duale di accesso alla formazione universitaria che prefigura il ritorno ad una Università di classe.
Inoltre, in assenza di adeguati finanziamenti (e a meno di aumenti esorbitanti delle tasse universitarie) essa risulterà attuabile, nel suo percorso integrale, solo in poche Università italiane, ripristinando condizioni di concentrazione dell’offerta universitaria e di sostanziale discriminazione sociale (per gli studenti che dovranno ricominciare ad emigrare soprattutto dagli Atenei del Sud) oggi non più accettabili.
1.3. Le risorse.
I tagli ai finanziamenti e le iniziative legislative in corso contribuiscono a disegnare uno scenario particolarmente preoccupante per le Università del Mezzogiorno. La fragilità dell’attuale tessuto produttivo del Sud Italia non fornisce infatti alle Università del Mezzogiorno, in termini di finanziamenti esterni e di sbocchi professionali qualificati, le stesse opportunità presenti nelle realtà del Centro-Nord. La riduzione delle risorse destinate agli Atenei, pur generalizzata a livello nazionale, è stata particolarmente accentuata nel caso del Mezzogiorno, già storicamente penalizzato dalla ripartizione dei fondi per la ricerca e l’Università. L’uscita nel 2006 delle regioni meridionali dall’Obiettivo 1 farà mancare anche quelle risorse dell’Unione Europea che hanno consentito in questi anni il mantenimento di molti dottorati di ricerca ed un sostegno importante alla didattica ed alla ricerca universitaria.
In tale contesto gli elementi di ulteriore precarizzazione e dequalificazione del ruolo docente contenuti nel DDL Moratti oggi (8 Marzo 2005 ndr.) in discussione alla Camera uniti alla insistente politica di tagli degli ultimi anni che gia’ hanno gravemente compromesso la tenuta del sistema pubblico della ricerca e della formazione universitaria italiana, rappresenterebbero un colpo mortale per le Università del Sud.
In una situazione di risorse progressivamente decrescenti sempre meno Atenei italiani potranno garantire una docenza ed una formazione universitaria di qualità. Altrove (e soprattutto nel Mezzogiorno) la impossibilità cronica di aumentare la forza docente porterà presto a dover ulteriormente ridurre l’offerta didattica.
L’alternativa, che in parte si è andata già realizzando dopo l’avvio del 3+2, rappresenta forse un rischio ancora maggiore. Provare a mantenere l’offerta didattica attuale a scapito di una qualità resa sempre più scadente dalla necessità di spostare tutte le risorse docenti disponibili (inclusi i ricercatori che non ne avrebbero l’obbligo) sull’attività di didattica frontale (riducendone l’impegno sulle attività di ricerca), sta realizzando di fatto l’obiettivo di creare poche Università di serie A (dove sarà possibile coniugare attività di ricerca e di didattica) e molte di serie B (dedicate quasi esclusivamente alla didattica sulle lauree triennali). Per la Basilicata questo significherebbe tornare molti anni indietro quando per accedere alla formazione universitaria era necessario (avendone i mezzi) muoversi verso altre regioni italiane.
A tale maggior rischio sembra opporsi la recente richiesta, rivolta perentoriamente dal MIUR agli Atenei, di dimostrare di possedere i requisiti minimi di forza docente (in rapporto al numero degli studenti) per ottenere il riconoscimento dei Corsi di Laurea già avviati o da avviare. Al di là dei criteri specifici adottati, si tratta di un provvedimento (soprattutto qualora venisse esteso anche alle Università private !) apprezzabile nell’intenzione di garantire criteri uniformi di qualità della didattica su tutto il territorio nazionale. Esso costringe gli Atenei a verificare se effettivamente l’aumento recente dell’offerta formativa è stato o meno accompagnato da risorse docenti sufficienti a garantire una didattica di qualità adeguata .
Ancora una volta però, senza risorse aggiuntive e senza politiche mirate che sappiano guardare ai problemi specifici ed alle potenzialità dei singoli Atenei, non solo le prospettive di sviluppo ma lo stesso mantenimento dell’esistente potrà risultare velleitario per quegli Atenei (soprattutto i più giovani, soprattutto al Sud) con un consolidato di risorse umane ed economiche ancora troppo limitato.
Rispetto a tale prospettiva, la possibilità recentemente data agli Atenei dal MIUR , di sopperire anche con fondi esterni (purché garantiti nel tempo) alle nuove assunzioni di personale, potrebbe rappresentare per gli Atenei in difficoltà una medicina peggiore della malattia.
E’ facile riconoscere, anche in questo caso, il perseverare di una politica di riduzione della spesa operata a colpi di tagli dei trasferimenti statali, volta a scaricare sulle economie locali i costi relativi al mantenimento di servizi essenziali che, come quello alla salute o alla istruzione, attengono a diritti costituzionali che andrebbero garantiti uniformemente a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro collocazione geografica e dalle possibilità di intervento delle istituzioni socio-economiche locali. Per il sistema della ricerca e della formazione universitaria, estendere l’importanza di contributi esterni fino ai limiti di condizionare la stessa sopravvivenza degli Atenei, rischia di accelerare ulteriormente quei processi di privatizzazione (nelle realtà socio-economiche più forti) o di regionalizzazione (soprattutto al Sud) che renderebbero solo virtuale l’Autonomia universitaria e, esponendo gli Atenei italiani sempre di più al condizionamento politico-economico, finirebbe per svuotarle di quegli elementi fondanti di libertà di insegnamento e di ricerca che sono non solo garantiti dalla Costituzione ma anche la forza motrice del loro maggior contributo al progresso del Paese.
2. Per il diritto ad una formazione universitaria di qualità anche al Sud, anche in Basilicata.
Anche contro questo progetto strisciante di “devolution” della conoscenza la FLC-CGIL ha sostenuto la lotta della Comunità Universitaria di Basilicata, dei professori, dei ricercatori, degli studenti, dei ricercatori precari, del personale tecnico e amministrativo che hanno partecipato alla fortissima mobilitazione nazionale dei mesi passati sollecitando i cittadini, la società civile, le forze politiche e sociali a sostenere una battaglia di civiltà perché il diritto ad una formazione universitaria di qualità e per tutti potesse essere tutelato in Italia, nel Mezzogiorno, in Basilicata.
Pensare alla conoscenza come a un diritto di tutti, significa pensare infatti anche ad una Università, la nostra, in grado di offrire non diversamente dalle altre Università italiane, didattica e ricerca di qualità. Pensare all’Università della Basilicata come ad una risorsa del paese ma anche e sopratutto della gente di Basilicata significa pensare ad una opportunità in più, per la nostra gente, per accedere ad una formazione universitaria fino a pochi anni fa riservata solo a chi si poteva permettere di mandare i figli fuori a studiare.
Università come motore dello sviluppo economico per la regione (e particolarmente per le città di Potenza e Matera) non solo per quel centinaio di milioni di euro che pure ogni anno entrano (tramite i finanziamenti ordinari, la capacità di attivare progetti di ricerca nazionali e europei, etc.) o rimangono in regione (circa 60 milioni di euro solo dalla riduzione dell’emigrazione studentesca), ma per tutto quello che l’Università rappresenta in termini di supporto alle iniziative delle istituzioni locali, di collegamenti con il sistema nazionale e internazionale della cultura, della ricerca e della innovazione produttiva.
Università come elemento di tenuta sociale della Regione che non vede più, non come prima, intere generazioni di giovani sparire, per cercare lavoro o per studiare fuori, ma anzi diventa occasione d’incontro e confronto critico dei giovani dei nostri paesi tra loro, con i giovani delle regioni vicine, con gli studenti e la cultura di altri paesi europei.
Università come presidio di libertà e di democrazia come durante i giorni di Scanzano quando, assieme alla comunità scientifica nazionale si poté dimostrare che non solo nel metodo, ma anche nel merito, la scelta del sito unico nazionale e la scelta di Scanzano in particolare, erano sbagliate. Oggi più di allora sembrano preziosi gli elementi (antidoti ?) di conoscenza condivisi durante i molti incontri con la gente di Basilicata promossi dal Coordinamento Scuola Università (fondato per l’occasione quasi ad anticipare la FLC di oggi). Oggi che il ritorno al nucleare comincia a essere riproposto anche più apertamente di ieri e la stessa questione di Scanzano apertamente falsificata utilizzando popolarissime trasmissioni televisive di divulgazione “scientifica” .
Università come risorsa, quindi, finchè rimane università di qualità, per la didattica, la ricerca, i servizi che è in grado di mettere in campo e per i quali l’Ateneo Lucano si conferma (per ora) nelle valutazioni del CENSIS, al secondo posto tra gli Atenei italiani di dimensioni simili mentre aumenta la sua capacità di attrazione verso gli studenti provenienti dalle regioni vicine.
Università che mentre si avvicina rapidamente all’obiettivo dei 10.000 studenti, ha ancora bisogno di consolidare ed espandere la sua offerta didattica, di dotarsi di infrastrutture e servizi adeguati soprattutto sul polo universitario di Matera, di aumentare la sua capacità di attrazione verso le regioni vicine proprio in quella logica di “area vasta” cara al Presidente Filippo Bubbico (oppure “senza confini” come propone il candidato Presidente Vito De Filippo) cui solo un Ateneo di qualità può verosimilmente aspirare.
Non solo l’auspicata espansione, ma lo stesso mantenimento dell’esistente, appare oggi gravemente compromesso da una sistematica riduzione dei finanziamenti ministeriali che, a oggi, consentono ancora il pagamento degli stipendi (non gli aumenti contrattuali, non le nuove assunzioni che sarebbero necessarie) mentre impediscono qualunque programmazione di più lungo respiro. La attuale forza docente dell’Ateneo (se non si prestasse gratuitamente ben al di là dei propri compiti istituzionali) sarebbe sufficiente a garantire solo la metà dei corsi attualmente erogati (circa il 30% sono oggi tenuti, gratuitamente e al di là dei loro obblighi, dai ricercatori) e, comunque, molti corsi di laurea (anche di quelli già attivati) potrebbero già dal prossimo Anno Accademico essere costretti a chiudere per mancato raggiungimento dei requisiti minimi sul numero dei docenti.
Gran parte dei problemi di oggi, benché comuni a molti altri Atenei italiani, assumono per l’Università di Basilicata dimensioni più gravi anche per ragioni storiche. Essa fu fondata infatti in un regime di finanziamenti differente (prima ad esempio che il numero degli studenti iscritti assumesse l’importanza che ha avuto in seguito nell’erogazione dei finanziamenti) puntando principalmente su Facoltà di tipo tecnico-scientifico che richiedevano grandi investimenti (principalmente per l’allestimento ed il mantenimento dei laboratori) ma garantivano in qualche modo maggiori possibilità di occupazione . Al momento del passaggio all’autonomia ed al nuovo sistema di finanziamento (che premiava gli Atenei che avevano attivato corsi di laurea a basso costo ed alto numero di studenti come Gurisprudenza, Economia, etc.) l’Ateneo Lucano, che non aveva nemmeno raggiunto la massa docente sufficiente a mantenere i corsi esistenti e con un numero di studenti inferiore a 5000 si è vista sistematicamente decurtare, a favore degli altri Atenei, i fondi del finanziamento ordinario (FFO). Adeguare le scelte iniziali al nuovo regime dei finanziamenti, aprendo ad esempio Facoltà e Corsi di Laurea con minori costi di avvio e in grado di attrarre un maggior numero di studenti è operazione in parte già tentata e con successo che ha consentito di raddoppiare gli studenti iscritti (oggi circa 8000) all’Ateneo Lucano. In un contesto già emergenziale rispetto alle risorse umane disponibili questo risultato si è potuto realizzare solo sfruttando oltre misura le risorse docenti già esistenti ed è chiaro oggi che un tale sforzo è impossibile da sostenere ulteriormente a meno di decidere di assecondare un processo, forse già in atto, di progressiva dequalificazione della ricerca e della didattica offerta dal nostro Ateneo.
Sarebbe questa una scelta suicida alla quale, in un quadro di risorse sempre minori e sempre più incerte, ad oggi non è chiaro se e come gli organi di governo dell’Ateneo Lucano vogliano sottrarsi.
3. Le prospettive future.
L’Università di Basilicata con un FFO di soli 32M€ (ormai per quasi il 90% assorbita dagli stipendi) un personale docente e non docente al 50% di quello che servirebbe ad una normale attività, attraversa un passaggio di gravissima crisi della quale il ricorso all’Esercizio Provvisorio per il 2005 è solo uno dei segnali.
Anche i risultati sin qui conseguiti (e riconosciuti dall’analisi comparativa del CENSIS) in termini di qualità della didattica e della ricerca, di aumento del numero fino a 8000 degli studenti (che per la prima volta quest’anno ha consentito di non restituire centinaia di milioni di lire al fondo di redistribuzione del FFO), di capacità di attrarre finanziamenti nazionali e internazionali, etc., rischiano di essere rapidamente vanificati e, comunque non più sostenibili nel tempo.
Lo sforzo rivolto alla didattica per attuare la riforma del 3+2 e per aumentare l’offerta di nuovi corsi di laurea ha impegnato oltre misura il corpo docente coinvolgendo sempre più anche i ricercatori, il cui tempo, per legge deve essere prevalentemente dedicato alle attività di ricerca. Al contempo le già risicate risorse disponibili per sostenere gli avanzamenti di carriera e le nuove assunzioni veniva completamente assorbito dagli aumenti stipendiali (circa 4M€ in tre anni per il personale docente e non docente) fatti impropriamente gravare sin dal 2001 dal Governo sul Bilancio di Ateneo. Al momento nemmeno le risorse necessarie per sostituire il personale cessato o trasferito in altre università sono più disponibili si ché, a fronte del raddoppio degli studenti iscritti e dell’aumentata offerta didattica, il numero dei docenti in servizio (così come quello dei tecnici e degli amministrativi) è rimasto praticamente immutato.
Lo scenario che si presenta è di una amministrazione universitaria oberata di lavoro, di un corpo docente sfiancato dal maggiore carico didattico e demotivato dalla mancanza di prospettive di carriera, sottratto sempre più all’attività di ricerca (che non solo distingue la formazione universitaria da quella scolastica ma rimane, in pratica, il principale elemento di valutazione nei concorsi universitari) ed alla possibilità di candidare quei progetti di ricerca sui cui fondi gran parte dei 400 ricercatori precari (dottorandi, assegnisti, contrattisti, etc.) dell’Ateneo sono pagati.
Il DL del 21 Gennaio 2005, dando attuazione alla norma (prevista in Finanziaria) che impone agli Atenei di produrre, entro il 31 Marzo prossimo, il piano triennale delle assunzioni perché venga sottoposto all’approvazione del Ministero che ne valuterà la congruenza con le disponibilità di Bilancio degli Atenei, pone una ulteriore ipoteca sulle possibilità (già limitate) dell’Università di Basilicata di assicurare, con adeguate risorse di personale docente e non docente, continuità ai risultati sin qui conseguiti.
In breve è chiaro che:
1. Il Bilancio dell’Ateneo è deficitario soprattutto sul fronte delle spese fisse in termini di costi di gestione ma soprattutto, per quel che riguarda la prospettiva del mantenimento e dello sviluppo di una offerta didattica di qualità, in termini di costi del personale.
2. Sulle possibilità di semplice mantenimento dell’offerta didattica attuale pesa un deficit strutturale sul FFO (da 3 a 5 M€ al netto dei futuri aumenti stipendiali) che oggi non consente nemmeno il mantenimento di servizi essenziali come la Biblioteca a livelli quantomeno dignitosi.
3. La capacità dell’Ateneo di auto-sostenersi per il futuro è legata in gran parte (stante il nuovo sistema di finanziamento) alla possibilità di aumentare significativamente il numero dei suoi iscritti, i servizi agli studenti, la qualità della ricerca. L’aumento dell’offerta didattica con l’apertura di nuove Facoltà assieme al consolidamento del Polo Universitario di Matera sono evidentemente le azioni che nell’arco di 6-10 anni potrebbero portare l’Ateneo Lucano all’autosufficienza. L’Ateneo, attraverso i suoi dipartimenti, dimostra invece una sufficiente capacità di attrarre risorse per la ricerca secondo modalità che li vedono spesso in una (sana) competizione con gli altri Atenei ed Istituiti di Ricerca nazionali e internazionali.
4. La capacità di attrazione dell’Ateneo dipende anche dalla qualità dei servizi agli studenti che le città saranno in grado di mettere in campo. La qualità della vita nelle nostre città universitarie, la loro capacità di accoglienza di chi in tali città viene per studiare o lavorare, rappresenta un fattore non meno determinante per consolidare ed aumentare la presenza di studenti e docenti nel nostro Ateneo.
3.1. Le proposte della FLC-CGIL.
Avviare da subito un tavolo permanente di confronto tra Università, Amministrazioni Locali e Regionali, perché si arrivi nei tempi più brevi e con il coinvolgimento pieno delle parti sociali alla definizione:
1. Subito, da parte dell’Ateneo, di un piano di breve e medio termine che indichi chiaramente le risorse necessarie a consolidare ed espandere (fino all’autosufficienza) la presenza e la qualità dell’Università in Basilicata.
Esso dovrebbe prevedere in particolare le risorse necessarie:
• All’aumento dell’offerta didattica ed al consolidamento del Polo Universitario di Matera attraverso l’apertura, su entrambi i Poli, di nuove Facoltà.
• Alla ri-organizzazione della macchina amministrativa e all’avvio di politiche organiche di gestione del personale (superamento del precariato, potenziamento degli organici e qualificazione dei ruoli di dirigenza e responsabilità)
• Al potenziamento dei servizi agli studenti (occasione di raccordo con le realtà cittadine di Potenza e Matera) anche attraverso l’apertura serale dei plessi Universitari con spazi aperti alle attività culturali e di socializzazione.
• Al perseguimento di politiche credibili di pari opportunità non solo per chi già studia e lavora nell’Università ma soprattutto per chi al lavoro o allo studio è costretto a rinunciare (asili nido e ludoteche aperti anche a studenti e personale precario con orari adeguati ai tempi di studio e lavoro, corsi universitari serali per i lavoratori, rimozione delle barriere architettoniche).
2. Immediatamente dopo, con il coinvolgimento delle rappresentanze politiche e sociali, di quelle istituzionali e parlamentari, l’apertura di un tavolo di confronto con il Governo Nazionale per porre chiaramente la questione del diritto per la Regione Basilicata ad avere oggi e per gli anni futuri una Università degna di questo nome e per verificare in particolare:
• se, e entro quali limiti economici e/o temporali, il Governo intende sostenere il piano di sviluppo volto a portare nel breve-medio termine al consolidamento dell’Università della Basilicata, tenuto conto anche delle particolari penalizzazioni subite dall’Ateneo Lucano al momento del cambio del sistema di finanziamento e dei risultati ciononostante conseguiti.
3. Già all’inizio di legislatura la definizione da parte della Regione Basilicata, di un Piano Regionale per la Formazione e la Ricerca nell’ambito del quale incardinare una Legge Regionale per l’Università che:
• Stabilisca patti e sedi di reciproca, sistematica, consultazione per tutti quegli aspetti di programmazione che direttamente o indirettamente, coinvolgono interessi comuni all’Ateneo Lucano.
• Preveda l’allocazione di risorse specifiche a sostegno dei Piani Triennali di Sviluppo presentati dall’Ateneo in particolare laddove le risorse messe a disposizione dal Governo Nazionale risultassero manifestamente insufficienti.
• Riconosca all’Università la piena Autonomia di programmazione e di gestione delle risorse ed alla Regione Basilicata il diritto alla valutazione ex-post del loro corretto utilizzo in rapporto agli obiettivi indicati nel Piano Triennale di Sviluppo presentato dall’Ateneo.
4. La definizione da parte delle Amministrazioni Provinciali, e Comunali delle città universitarie di:
• Patti e sedi di reciproca, sistematica, consultazione per tutti quegli aspetti di programmazione che direttamente o indirettamente, coinvolgono interessi comuni all’Ateneo Lucano.
• Piani di intervento specifici, di medio e lungo periodo che, soprattutto nel settore dei trasporti, della pianificazione urbanistica, della costruzione di percorsi e contenitori culturali, riconoscano nell’Ateneo Lucano un interlocutore con cui confrontarsi sistematicamente per sfruttare tutte le sinergie possibili.
In tale contesto, in un sistema di reciproca e feconda collaborazione, la FLC-CGIL è pronta a dare da subito il suo contributo di idee su temi specifici o più generali. In particolare proponiamo un percorso che consenta per il futuro di:
a) definire strategie comuni (con gli altri Atenei e le altre Regioni interessate) perché anche nei rapporti con il Governo nazionale sia possibile porre in maniera corretta e davanti a tutte le forze politiche la questione specifica degli Atenei giovani e di piccole dimensioni in generale e, in particolare di quelli, come l’Ateneo Lucano, collocati in aree deboli del Mezzogiorno, per i quali è impensabile (a meno di non volerne la chiusura o la riduzione a istituzioni di serie B) continuare ad applicare tout-court metodi di finanziamento standard.
b) evitare che il sostegno economico (che pure c’è stato) all’Ateneo Lucano continui attraverso iniziative occasionali che spesso poco o nulla hanno a che fare con le sue reali esigenze di sviluppo spesso, anzi, sollecitando il malcostume della caccia al finanziamento di attività di ricerca ad personam. Cose più semplici e di maggiore impatto sulla riduzione delle spese fisse di Ateneo si potrebbero invece fare nell’immediato, per esempio:
- costituendo un Fondo Regionale per il co-finanziamento (fino al 10%) dei progetti di ricerca che consentirebbe a tutti i ricercatori dell’Ateneo di presentare progetti nei bandi nazionali e internazionali per cui tale co-finanziamento è ormai sistematicamente richiesto. Si alleggerirebbe così il carico sul Bilancio di Ateneo offrendo alla Regione un meccanismo efficace e trasparente per sostenere quelle attività di ricerca che si sottopongono a sistemi di valutazione nazionali e internazionali ormai collaudati.
- la Regione Basilicata intervenga (come ha già fatto la Regione Lombardia) ha compensare con fondi propri la riduzione/esenzione dalle tasse studentesche decise dall’ARDSU secondo graduatorie di reddito e di merito. Si tratta di un mancato introito particolarmente rilevante per l’Ateneo se è vero, ad esempio, che oltre il 50% degli studenti iscritti presso il Polo Materano non pagano interamente le tasse.
- l’Ateneo lucano, solo in considerazione del contesto socio-economico in cui si trova ad operare, ha mantenuto le tasse studentesche tra le più basse d’Italia. Anche su questo probabilmente si potrebbe fare di più (una apposita Legge Regionale di compensazione tra le tasse richieste dall’Ateneo Lucano e quelle mediamente praticate dalle altre Università italiane).
- intervenire a livello di Provincia e Municipi ovunque possibile nella partecipazione alle spese di gestione rendendo fruibili alla cittadinanza spazi e servizi comuni (Biblioteca, Centro Congressi, Teatri, spazi culturali in generale) contribuendo a tenere aperte le strutture dell’Ateneo anche la notte, anche l’estate.
- sfruttare sinergicamente i finanziamenti per edilizia e infrastrutture per realizzare anche fisicamente un maggiore raccordo tra Città e Campus Universitari. Appare incredibile che, nel momento in cui l’Ateneo si appresta a investire 25M€ in infrastrutture su Potenza e Matera, non siano stati ancora individuati percorsi comuni con le Amministrazioni Provinciali e Comunali che, in particolare a Potenza, hanno fatto della riqualificazione urbana e della promozione della Cultura temi qualificanti della loro azione di governo.
c) sostenere la domanda di alta-formazione. Sebbene la linea scelta dal Governo nazionale prefiguri un Paese che, rinunciando a competere sull’innovazione, non avrà più bisogno nemmeno di alta formazione, e anche se crediamo che la funzione della scuola e dell’Università non sia quella (almeno non solo) di avviare al lavoro, pure il tema della domanda di alta-formazione in Basilicata và posto chiaramente per evitare che il problema della (ormai ripresa) emigrazione al Nord diventi sempre più grave traducendosi in un desolante fuga dei nostri giovani meglio preparati.
Sostenere i processi che determinano la domanda di alta-formazione significa aver messo in moto meccanismi reali di innovazione, nella macchina amministrativa, nei servizi, nelle imprese, meccanismi virtuosi in grado, di garantire più lavoro, più stabile e di migliore qualità, in un mercato che chiede competitività ma anche persone formate per essere fattore propulsivo e non vittime dell’innovazione. Su questo terreno la Regione Basilicata ha fatto e sta facendo investimenti importanti e lungimiranti soprattutto per quel che riguarda il miglioramento dei propri servizi, dell’organizzazione interna, delle infrastrutture di interconnessione, del sostegno a progetti che vedono la Regione stessa capofila e/o riferimento di progetti di area più vasta che coinvolgono altre regioni italiane.
Più difficile (ma è un problema facilmente riscontrabile anche a livello Europeo) immaginare politiche di sostegno all’innovazione nelle imprese e ancor più nelle PMI che, come è noto, sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese. Salvo rare eccezioni, i finanziamenti alla ricerca ed all’innovazione delle imprese si è risolto in un semplice finanziamento alle imprese. Molto spesso le nostre imprese non sono nemmeno in grado di esprimere una reale domanda di innovazione e tanto meno di ricerca. Chiunque abbia partecipato a progetti di ricerca europei, ma anche a bandi nazionali (e regionali) nei quali era sollecitata la partecipazione delle PMI, ha trovato spesso partner privati (anche multinazionali) molto interessati ad ottenere il finanziamento ma poco o nulla interessati al risultato della ricerca, scarsamente attrezzati per dare un qualunque contributo al buon esito del progetto. In buona sostanza le politiche di sostegno alla ricerca ed alla innovazione nelle imprese sono sempre più interpretate dalle imprese come semplici politiche di sostegno finanziario che le vedono premiate per il solo fatto di esistere come imprese e di dare la loro adesione ad un qualunque progetto che ne richieda la partecipazione.
Ancora più difficile immaginare un comportamento più virtuoso in una Regione come la nostra, difficilissimo dove non esiste già una predisposizione visibile delle imprese ad investire proprie risorse (e indipendentemente da sollecitazioni esterne) in ricerca e innovazione.
Separare la espressione di domande specifiche di innovazione dalla speranza di ottenere solo per questo dei finanziamenti, aiuterebbe sicuramente a farci fare un passo avanti. Piuttosto che i finanziamenti per bandi (che sollecitano la costruzione di cordate improbabili costruite ad hoc ed al solo scopo di accedere ai fondi) proponiamo un sistema di finanziamento a sportello (con valutazione dei progetti mano a mano che essi vengono presentati e con le imprese nella parte dei committenti) che sostenga principalmente università e/o enti di ricerca nella fase di ricerca e sviluppo e le imprese soprattutto (meglio soltanto) nella fase di immissione dei risultati della ricerca nel processo produttivo. Si selezionerebbe così una domanda reale (e premiata solo quando produttiva) di innovazione piuttosto che sollecitare semplici richieste di finanziamenti travestite per l’occasione.