Nel recente mese di ottobre si è tenuto in Roma un convegno organizzato dalle associazioni professionali dei docenti dal titolo “L’insegnante, una risorsa sprecata?”. Nel mio intervento ho posto allora un altro interrogativo, in effetti abbastanza provocatorio: l’insegnante è veramente una risorsa? O meglio, può essere una risorsa quando l’intera istruzione – il Sistema nazionale di istruzione – in questo quinquennio di buio morattiano non lo è? Ed ancora! La crisi dell’istruzione riguarda solo il nostro Paese o è un fenomeno più ampio che investe in larga misura tutti i Paesi delle società cosiddette ad alto sviluppo?
Da ottobre ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti. Ma certi problemi di vasta portata restano! In effetti, viviamo una grossa contraddizione. Si parla molto della società della conoscenza, si afferma in tutte le risoluzioni europee ed internazionali che l’istruzione è la risorsa della società del futuro, che la conoscenza è la materia prima delle società postindustriali, come il carbone e l’acciaio lo sono state per le società industriali. Ed ancora, “conoscere è crescere” è la parola d’ordine delle forze politiche che si sono battute contro il governo della Destra, e dovrebbe costituire il clou del cambiamento in materia di istruzione.
La ricerca sociale e l’opzione politica illuminata sono concordi nell’attribuire all’istruzione una priorità assoluta! Ma, nei fatti, è veramente così?
Una cosa è certa! Che ieri il figlio dell’operaio poteva diventare dottore! Quanti figli dei contadini del Sud sono diventati insegnanti e professionisti nel corso degli ultimi decenni sull’onda del grande rinnovamento che negli anni Sessanta – pur tra tante difficoltà – estese la scuola dell’obbligo a tutti? E sono molti coloro che hanno avuto la possibilità di raggiungere alti gradi degli studi! Il nostro Paese è cresciuto, nell’economia, nel tenore di vita, nella cultura, grazie al grande balzo in avanti che ha compiuto anche nel settore dell’istruzione!
Oggi le cose sono molto diverse. Oggi, il figlio del dottore che cosa diventerà domani? Che cosa farà? Quali prospettive ha nel mondo del lavoro?
Il fatto che il fenomeno riguardi anche i Paese avanzati europei non deve consolarci! Che cosa sta veramente accadendo, oggi, nel mondo della cultura, delle conoscenze, dell’istruzione, del lavoro? Ci hanno detto che ormai le differenze tra lavoro intellettuale e manuale non esistono quasi più! Che non c’è professione che non richieda anche un grosso back ground di conoscenze! Il contadino e l’operaio di ieri non esistono più! Le tecnologie hanno trasformato mansioni e processi lavorativi. Ma è anche vero che le logiche della globalizzazione hanno trasformato lo stesso mercato del lavoro! Abbiamo a che fare con la delocalizzazione, da un lato, dall’altro con le nuove immigrazioni! Sono fenomeni che incidono profondamente sulla occupazione e sulla stessa occupabilità. E sono anche nati concetti nuovi, primo fra tutti quello della flessibilità! Con tutte le contraddizioni che questo concetto comporta. Dove finisce la flessibilità e dove comincia la precarietà? Ci dicono che il posto fisso è un concetto superato! Ciò che si richiede nel lavoro oggi sono l’inventiva, il coraggio, la capacità imprenditoriale! Il berlusconismo per certi versi affascina, per altri versi sconvolge! Ciò che è accaduto in Francia contro la prospettiva di contratti di lavoro iugolatori, che sancivano una occupazione precaria per legge, deve insegnare qualcosa!
Né può consolarci che un acuto sociologo come Zigmunt Bauman definisca “liquida” la società in cui viviamo, in cui tutto è provvisorio, nulla è certo, tutto è indefinito, nulla è definito. Le pagine di Bauman sono acute in merito, ci aiutano a capire, ma non sono sufficienti a rassicurarci.
La società della informazione privilegia e sollecita la conoscenza! Le informazioni sono anche immagini! Ma, quando le immagini schiacciano le informazioni, il discorso è diverso! La società dell’immagine sollecita altri bisogni, privilegia l’avere più che il sapere, propone le vie brevi del successo facile e immediato. Le diete, la palestra, il lifting privilegiano il corpo più che la mente. La moneta cattiva dell’apparire caccia la moneta buona dell’essere.
In un contesto di questo tipo qual è lo spazio per l’istruzione? Perché un giovane dovrebbe studiare quando il suo domani professionale è assolutamente incerto? Il figlio del contadino del Sud si impegnava nello studio, essenzialmente per due ragioni: la liberazione da una condizione di miseria; la consapevolezza di un autentico riscatto sociale, culturale e professionale.
L’istruzione oggi vive questa contraddizione: da un lato la semplice constatazione che una società che si evolve sempre più rapidamente non può fare a meno di conoscenze di tutto rilievo; dall’altro l’indisponibilità di masse di giovani a studi impegnativi che non è certo quando e come saranno ripagati! A ciò si deve aggiungere il peso massiccio che tanti messaggi negativi hanno nel mondo degli adolescenti – ed in tutte le società ad alto sviluppo! Il fatto che nelle università le facoltà scientifiche vadano deserte e che la via facilior delle cosiddette scienze della comunicazione siano affollatissime la dice lunga! E lo dico io che mi occupo proprio di comunicazione! Il fatto è che la via della immagine, del successo a portata di mano, che sembra costare poca fatica e rendere molto è suadente e stimolante. Ma su una velina che sposa un calciatore, ci sono mille veline disilluse e professionalmente incapaci!
Per non dire poi dei messaggi veicolati da certi reality! Uomini e Donne, Grandi Fratelli, Fattorie, Isole dei Famosi, in cui si predica soltanto – e si pratica purtroppo – che il successo dell’uno si raggiunge solo a danno dell’altro! Altro che partecipazione, solidarietà, spirito collaborativo! Quell’etica civile per la quale ci battiamo noi insegnanti nelle scuole è assolutamente contraddetta dall’immoralità di tanti messaggi a cui siamo quotidianamente esposti! Ed i più deboli, i più fragili, i nostri ragazzi sono poi quelli che pagano di più. Si ammazzano con la droga, o sulle strade del sabato notte, si divertono a fare i bulli, a tirare i sassi dai cavalcavia! E non è gravissimo che nel Napoletano non ci sia un giovane che indossi il casco quando va in moto? Purtroppo sono tutte situazioni a cui ci stiamo sempre più abituando!
A questa fragilità della coscienza civile si accompagna un altro fenomeno assolutamente preoccupante: quello dell’illetteratismo, che non va confuso con l’analfabetismo di ritorno – con tutto il rispetto che dobbiamo avere per gli analfabeti della società contadina di ieri i quali, anche se non sapevano leggere e scrivere, come la cultura dei vincitori imponeva, avevano pur sempre una loro coinè culturale di tutto rispetto!
Nei Paesi ad alto sviluppo – ed anche in Italia – solo un terzo della popolazione è capace di leggere e comprendere i messaggi complessi che il sociale eroga giorno dopo giorno. Un terzo ha grosse difficoltà di lettura. Un altro terzo ne è assolutamente incapace! Lo dicono le ricerche Ocse-Ials, che Tullio De Mauro così bene ci racconta nel suo La cultura degli Italiani.
Ad una analisi così spietata della realtà contemporanea occorre certamente dare risposte adeguate. Occorrono insegnanti forti e responsabili, ma in primo luogo è necessaria una decisione politica che sia capace di scegliere l’istruzione come impegno prioritario. Occorre aprire uno scenario del tutto nuovo perché si abbia anche un insegnante all’altezza dei suoi compiti istituzionali.
Ogni periodo storico esige la sua Scuola e i suoi Insegnanti. Negli anni Sessanta e Settanta, quando lanciammo la grande sfida della scuola per tutti – alludo alla scuola dell’obbligo del ’62, anche alle sue iniziali difficoltà, alle denunce di Don Milani del ’67, e a quelle degli studenti del ’68 – occorreva un insegnante che andasse oltre le competenze disciplinari e che acquisisse anche competenze metodologico-didattiche e psico-pedagogiche. Erano gli anni in cui la pedagogia cominciava a riscattarsi dal tradizionale servaggio nei confronti della filosofia e a rivendicare la sua autonomia e la sua dignità di scienza (Raffele La Porta); in cui nascevano le scienze dell’educazione (Aldo Visalberghi ne individuava ben 18!); in cui si esortavano gli insegnanti a non essere più Vestali della classe media (Marzio Barbagli e Marcello Dei), ma efficaci operatori dell’educazione e della cultura. Poi con i Decreti delegati del ’74 si avviò quel processo di democratizzazione con cui la scuola “si apriva” al sociale e al territorio e si inaugurò la lunga stagione della strategia del curricolo, la quale soltanto poteva garantire una battaglia vincente contro la selezione e per l’inclusione.
Poi questo processo, assolutamente difficile in verità, è stato bruscamente interrotto. Il governo della Destra con il braccio armato della Moratti ha cominciato a disfare ciò che in cinquanta anni abbiamo faticosamente costruito. Le tappe di questa involuzione sono felicemente descritte nella Scuola disfatta, una recente pubblicazione di Benedetto Vertecchi.
Ed ora ci tocca riprendere quel cammino così brutalmente interrotto! La politica deve assolutamente fare la sua parte e noi insegnanti dobbiamo fare la nostra!
In primo luogo dobbiamo renderci conto del profondo cambiamento – di cui, ovviamente, siamo stati anche partecipi – che si è verificato negli ultimi anni sul terreno istituzionale e costituzionale. Il processo delle autonomie, che ha investito tutti i settori dell’apparato statale della pubblica amministrazione, ha investito anche la scuola! Il decreto che la regola, il dpr 275/99, ha assunto anche il rango costituzionale, con quella riforma del Titolo V del 2001 che ha riorganizzato e riconfigurato tutto l’assetto amministrativo del nostro Paese.
La vera Seconda Repubblica è quella che è nata nel 2001 e siamo un po’ tutti cittadini di una seconda repubblica! Siamo tutti diversi, a fronte dei nostri diritti e di nostri doveri, rispetto a ciò che eravamo prima del 2001. Fino a quella data le Regioni si governavano ad autonomia limitata – se mi è concessa questa espressione – oggi Regioni e Stato esercitano poteri con assoluta parità di azione e distribuzione di competenze.
Per quanto riguarda la scuola, la verticalità di un tempo tra Ministero della Pubblica Istruzione e Unità scolastiche non esiste più. Attualmente le competenze sono così distribuite:
A sette anni di stanza dal suo varo, l’autonomia delle istituzioni scolastiche non ha avuto un grande sviluppo. Comunque, possiamo dire che, a fronte della offensiva della Moratti, l’autonomia ha costituito una valida trincea per resistere alle cervellotiche iniziative di un ministro che ha inteso imporre una sua personalissima idea di scuola, senza promuovere alcun dialogo con gli insegnanti e mandando all’aria con lo slogan del punto e a capo tutto il difficile percorso di continua innovazione degli ultimi decenni.
L’autonomia, in una rinnovata stagione politica, è una strada che le scuole devono assolutamente ripercorrere, perché è al territorio in primo luogo e ai suoi utenti che esse devono rispondere più che alle circolari di un Miur che non ha più alcun potere di governo delle scuole. Ma le scuole sul territorio debbono assolutamente organizzare accordi ed intese confrontandosi con gli enti locali e con le competenze che la nuova Costituzione attribuisce loto. Lo stesso Regolamento sull’autonomia autorizza e sollecita le istituzioni scolastiche ad attivare Reti, Consorzi e tutte quelle forme di interazione che permettano loro di erogare al meglio i servizi che gli alunni e le loro famiglie si attendono.
In tale rinnovato scenario la responsabilità dei dirigenti scolastici – che non a caso non sono più direttori o presidi – e degli insegnanti è enorme. Ed è qui che è doveroso sottolineare che agli insegnanti compete un nuovo ruolo in questa partita, che è eminentemente politico.
Siamo ormai lontani dagli anni in cui certa ricerca sociologica si dilettava anche di mettere in dubbio che l’insegnante fosse un professionista. Antonio Santoni Rugiu nel suo Il professore nella scuola degli italiani, del ’69, riporta divagazioni di questo tipo, nelle quali prevalevano i soliti ben noti adagi: lavoro a mezzo tempo; tre mesi di vacanze; rapporto impiegatizio; nessuna corresponsabilità in ordine a contenuti e obiettivi; presenza massiccia di personale femminile; ed altre amenità di questo tipo.
Da allora di strada ne abbiamo fatta parecchia. Dal Contratto di lavoro si evince chiaramente quale sia l’hard core della professione docente: “La funzione docente si fonda sull’autonomia culturale e professionale dei docenti; essa si esplica nelle attività individuali e collegiali e nella partecipazione alle attività di aggiornamento e formazione in servizio” (art. 24); “Il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano con il maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica” (art. 25).
Oggi un qualsiasi professionista deve avere solide competenze di base e competenze specialistiche da rinnovare costantemente in relazione all’evoluzione dei profili professionali e degli stessi processi lavorativi. Oggi all’insegnante si chiede implicitamente molto di più: avendo a che fare con alunni a cui deve insegnare anche ad apprendere, e che deve soprattutto orientare per l’inserimento in una società complessa ed in un mondo del lavoro altrettanto difficile, egli non si può sottrarre dal conoscere forse meglio di altri le dinamiche di una società ad alto sviluppo e delle professionalità emergenti.
E’ per questo insieme di ragioni che il ruolo dell’insegnante è, oggi, eminentemente politico, ovviamente nel senso etimologico del termine. Un ruolo che si deve esprimere in primo luogo in due direzioni. La prima è quella che riguarda la conoscenza del territorio, delle sue risorse, delle sue attese e vocazioni, delle valenze educative che esprime; la seconda è quella che riguarda la conoscenza delle difficoltà del mondo giovanile in questa società complessa, e la conoscenza di ciò che una società difficile e contraddittoria presenta alle nuove generazioni.
Ma il ruolo politico deve anche mirare più in alto. Esistono le organizzazioni sindacali della scuola, esistono le associazioni professionali. Il corpo docente conta circa 800mila lavoratori. Costituisce una forza immane che deve far sentire a ministri e governi la sua voce decisa e costante. Ciò che è stato permesso alla Moratti non deve assolutamente ripetersi. La Moratti ha condotto la sua “riforma” – le virgolette sono di rigore – non solo non chiedendo nulla alla scuola ma imponendo tutta una serie di provvedimenti senza minimamente curarsi dei disagi e dei guasti che andava provocando nonostante le fiere proteste che insorgevano da ogni parte. La scuola si è limitata alla difesa, e l’autonomia ha costituito il solido vallo oltre il quale la Moratti non è riuscita ad andare.
E’ necessario, oggi, andare oltre il vallo. Chi la scuola la fa, è bene che non attenda nuove iniziative dall’alto, ma che le proponga in prima persona. Non è sufficiente avere un altro ministro. Occorre incalzarlo con la forza delle proposte che chi la scuola la fa deve avanzare e subito. E ciò anche con la consapevolezza che la scuola oggi ha nuovi alleati. La resistenza opposta dalle Regioni e agli Enti locali alla “riforma” della Moratti ha costituito una valida difesa della dignità e della autonomia della scuola. E’ necessario che le scuole sappiano avviare rapporti di collaborazione con gli Enti locali, anche e soprattutto perché è sul territorio che sempre più saranno gestiti i processi di educazione, istruzione e formazione.
Il quadro costituzionale è sufficientemente chiaro in tal senso: spetta allo Stato la governance dell’istruzione, indicare le linee che garantiscano l’unitarietà del Sistema nazionale di istruzione, del quale dobbiamo tutti essere attenti custodi. Ma il government, la gestione amministrativa, si conduce sul territorio da parte degli enti che lo rappresentano e lo conoscono. E’ solo in una attenta distribuzione dei compiti istituzionali che la realizzazione dei percorsi curricolari, che sono di esclusiva competenza delle scuole e dei loro insegnanti, può effettuarsi con successo.
La chiara conoscenza del nuovo contesto costituzionale e la piena consapevolezza del ruolo sono le due condizioni che possono sostenere gli insegnanti nella loro attività di professionisti validi e responsabili.
Maurizio Tiriticco