Il neoministro all'istruzione Beppe Fioroni ha fatto la sua prima apparizione durante la Marcia di Barbiana, in memoria di don Lorenzo Milani, a 40 anni dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa.
La Marcia di Barbiana nasce nel 2002 da una proposta assunta dal Congresso della Cgil Scuola di Salsomaggiore e da allora ogni anno, a maggio, migliaia di persone si recano a Barbiana per chiedere una Scuola pubblica di tutti e di ognuno.
Ecco il testo dell'intervento di Fioroni:
"Considero una circostanza davvero felice la partecipazione alla Marcia di Barbiana nella veste di Ministro dell’Istruzione. È la mia prima uscita pubblica e realizzarla qui nei luoghi di Don Milani mi appare davvero ben augurante e soprattutto impegnativo.
La mia generazione non ha un ricordo diretto del “priore” come non lo ha del Concilio e di tutti quei movimenti che accompagnarono il passaggio degli anni sessanta. Questo luogo però costituisce per tutti e quindi anche per me un luogo dalle fortissime valenza simboliche e certo non mi sfugge che proprio qui a Barbiana siamo nel cuore di quel decisivo passaggio di una storia che ha carattere di universalità, che il tempo non scalficsce ma continua ad avvalorare.
Di Don Milani e soprattutto della Lettera a una professoressa si è scritto moltissimo; siamo di fronte a quei giacimenti di memoria storica che non invecchiano mai, anche se a non pochi fa comodo far finta di non avvedersene. Ed è così vera la vitalità di queste memorie, come del resto i lavori del concorso bene hanno testimoniato, che non siamo di fronte ad un cimelio nel quale i ricordi si racchiudono dopo aver perduto gran parte dell’energia iniziale.
Siamo invece di fronte ad un insegnamento che, pur segnato dal tempo, conserva tutta intera la propria carica di profezia e di certo non è retorica affermare che oggi il messaggio di Barbiana fa pensare e conserva integra quella inquietudine che quarant’anni fa propose laicamente all’attenzione di tutti.
Alla metà degli anni sessanta l’Italia viveva il fulmine di quello che allora fu chiamato il boom economico. Tra il ‘50 ed il ‘64 il nostro paese aveva raddoppiato il reddito netto per abitante in termini reali; un risultato che prima si era potuto realizzare solo in novant’anni. Eppure, nel pieno di quel processo, il benessere non era equamente distribuito; insieme all’accrescimento economico e finanziario si accompagnavano menomi di sofferenza e di esclusione. Nacquero e si accrebbero in quegli anni i disagi delle periferie metropolitane invasi dagli immigrati del sud e nelle campagne restarono ampie zone non raggiunte dal miracolo economico.
Barbiana era appunto uno di quei luoghi di vita difficile, un contesto che oggi facciamo fatica ad immaginare ma che, come vedremo, poneva problemi che stanno tornando nel mondo di oggi.
Ed ecco qual è, per me, il primo insegnamento di Don Milani: guardare alla cose nascoste, andare oltre alla banalità dell’evidenza. E chi avesse voglia di rileggersi le centosessanta pagine della lettera potrà agevolmente capire questo atteggiamento di svelamento della realtà. Gli esempi sono moltissimi, nei contenuti del testo appaiono con limpida evidenza denunciando la perpetuazione dei percorsi di esclusione sociale che per tanti decenni hanno attraversato la scuola ed il mondo della formazione e che oggi, dopo un certo accanimento controriformatore degli ultimi anni, si ripropongono in forme antiche e nuove.
Ancora oggi nel nostro paese decine di ragazzi ogni anno escono dalla scuola media senza aver conseguito il titolo finale, esclusi da ogni proseguimento formativo, mentre oltre un quarto dei giovani continua a non conseguire né diplomi né qualifiche professionali ed è questo un punto sul quale è mia intenzione intervenire con politiche adeguate, perché in nessun modo la scuola sia un luogo di esclusione.
La scuola è di tutti e per tutti e a questo principio fondamentale non è possibile derogare.
Ed arriviamo ad un secondo decisivo insegnamento che viene dall’esperienza di Barbiana: non lasciare indietro nessuno. E non solo per quella pietà, che in una società segnata per tanti aspetti dall’empietà è certamente una laica e nobile virtù, ma per un interesse reale che comprende ma supera i sentimenti: fare l’interesse della Repubblica di formare il maggior numero possibile di giovani all’impegno di una vita e di un lavoro degni di essere vissuti e tali da costituire una base di certezze umane e produttive per il futuro del nostro paese.
I ragazzi che i borghesi di allora non volevano, come si legge nella lettera, devono invece trovare i motivi e godere delle risorse necessarie per restare e realizzare il successo formativo superando le difficoltà. L’abbiamo visto anche noi, dicevano i ragazzi di Don Milani, con “con la loro scuola e con loro, la scuola diventa più difficile e qualche volta viene la tentazione di levarsene da torno, ma se si perde loro la scuola non è più scuola, diventa ospedale che cura i sani e respinge i malati, diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. Questo vale per tutte le forme di esclusione, vale anche per il nostro approccio fattivo nel garantire le pari opportunità ai diversamente abili.
Ed è qui che l’indicazione è chiarissima e vincolante, certamente per chi ha responsabilità generali nella scuola, e non solo per ridurre il fenomeno della mortalità scolastica, secondo una mera logica dei numeri, ma nel senso più sostanziale di dare davvero a tutti quella formazione che è indispensabile per un pieno inserimento sociale, per il quale è altrettanto evidente che occorrono sinergie nuove tra i vari organi di governo, centrali e locali, e soprattutto un rimotivato coinvolgimento tra pubblico e privato per creare le possibilità d’incontro tra il sapere e la produzione della ricchezza e dei servizi. Un coinvolgimento che dovrà vedere il sistema educativo protagonista attivo e senza incertezze.
Chi sale a Barbiana, poi, non può non tornare senza un altro importante insegnamento: il no all’indifferenza. Si è scritto fino alla noia sul significato di quell’ I care che campeggia nei locali della scuola. È vero, la vera cifra che tante volte distingue tra loro le persone è proprio questa caratteristica immateriale capace di trasformare un gesto qualsiasi in un’azione significativa. Possiamo anche avere dissapori tra di noi, pensarla diversamente su una o più questioni, anche decisive, ma se le scelte ci interessano potremo sempre trovare un terreno di confronto.
Come accennavo, l’indifferenza di borghesi di allora, cui alludono tante pagine della Lettera, è diversa da quell’indifferenza che noi oggi sperimentiamo. Se prima l’indifferenza nascondeva in se stessa una forma di insofferenza e spregio delle classi sociali meno abbienti, oggi l’indifferenza, oltre a questo, si colloca in tutti quei territori dove per tante ragioni l’uomo tende a ridurre i propri comportamenti ad una banalità opaca sulla quale la luce dell’etica civile non riesce più a filtrare e ad illuminare le coscienza.
Ed ecco allora che a quell’I Care dobbiamo dare oggi un significato più pieno. Esso è infatti la formula di un invito ad essere pienamente uomini ed indica in definitiva la necessità di un nuovo umanesimo. Le culture del novecento hanno prodotto tante dottrine politiche e quindi forme di umanesimi contraddittori e, come bene è stato detto, l’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano e la storia del secolo breve, con le sue stragi, ne ha dato testimonianze tragiche, ma attenzione: la fine delle ideologie non ha avuto automaticamente qual conseguenza la fine della disumanità.
Le nuove povertà dei paesi industrializzati, le crescenti divisioni trai paesi ricchi e i paesi poveri, le oltre centoquaranta guerre che si stanno combattendo nel mondo, anche con disumano impiego dei bambini soldato, la crisi ambientale ed altri fenomeni preoccupanti, ci dicono che gli esiti della modernità da soli, non sono in grado di garantire un futuro di pace degno di umanità riscattata dalle guerre e dalle ingiustizie.
Ci dicono cioè che dobbiamo incontrarci per scrivere insieme le tavole di un etica condivisa che restituisca ragioni di speranza e di crescita all’umanità.
Tanti fatti, oltre a quelli appena segnalati, ci dicono che la costruzione di un umanesimo vero e di pace è impegno difficilissimo ma non impossibile. Per costruirlo Don Lorenzo ci aiuta con il suo generoso e intelligente esempio, a partire da quella scuola che attraverso il suo impegno, ha ridato la parola ad una povertà che ne era priva, ne era afona. E ancora oggi dobbiamo ridare la parola a chi l’ha perduta assieme alla voglia di comunicare, di parlare. A chi, nella frammentazione del presente ha perso la fiducia di poter divenire protagonista della propria vita e su questi valori, ve lo assicuro veramente, orienterò il mio impegno di governo come ministro della scuola di tutti, perché questo e non altro vuol dire l’espressione “pubblica istruzione”
C’è una terra di mezzo tra quella dei grandi apostoli della solidarietà e quella variegata del mondo della politica, c’è uno spazio dei profeti che è una patria senza confini. Don Milani abita ancora questa terra e ci aiuta con l’esempio della sua missione religiosa ma soprattutto civile."