Dopo la densa discussione della giornata di ieri, spetta a questa terza parte dei nostri lavori formulare linee e proposte di intervento sui temi in discussione.
Come è stato ricordato, veniamo da un'impegnativa discussione programmatica, conclusa con il nostro Congresso del febbraio scorso, che ha visto, tra i documenti, anche l'approvazione di un'impegnativa risoluzione specifica sul tema del precariato. Abbiamo dunque tutte le condizioni, sia di maturazione dell'elaborazione, sia di indirizzo politico formalmente assunto dall'insieme dell'organizzazione nella sua sede statutaria più alta, per avviare una campagna sistematica e generalizzata, in tutte le istanze territoriali della FLC, che ci conduca a tradurre in azioni e risultati le nostre proposte. Le proposte che formuliamo vanno intese dunque come un vincolo ed un indirizzo politico cogente per tutte le strutture territoriali e locali della nostra organizzazione, da portare a verifica nella prossima Conferenza di Organizzazione della Cgil.
Ci conforta, e ci induce alla speranza, il cambio di maggioranza e di Governo sancito dalle recenti elezioni, dopo il lungo tunnel buio che abbiamo attraversato con il Governo di centrodestra. Non perchè sosteniamo la teoria dei Governi"amici", nè perchè il sindacato debba rinunciare a un grammo della propria autonomia; ma semplicemente perchè, al di là delle differenze di opinione che indubbiamente esistono, speriamo almeno di poter finalmente tornare ad una normale fisiologia dei rapporti, con parti sociali e politiche che ricominciano a dialogare e ad ascoltarsi. Non, come è accaduto in questi anni, con il tentativo sistematico e deliberato di cancellare ogni legittimità di rappresentanza del sindacato e con la chiusura programmatica di qualsiasi dialogo reale.
Proprio da questo voglio cominciare quest'introduzione, perchè il complesso intervento sul precariato, che necessita di un insieme coordinato di azioni da svolgere a vari livelli e su diversi terreni, ha bisogno di potersi realizzare dentro un quadro di obiettivi e metodi condivisi. Il precariato non è solo la scelta di una modalità di prestazione del rapporto di lavoro tesa a ridurre i costi, flessibilizzare le strutture produttive e rendere più agevole il controllo gerarchico del lavoro.
Occorre partire dal riconoscimento comune dell'idea che una flessibilizzazione estesa e priva di controllo, come quella che si è realizzata in Italia negli ultimi anni, ha effetti ben più profondi. Lo dico perchè il confine che segna la differenza tra l'utilità produttiva e sociale di una flessibilità controllata e, invece, una patologia sociale degenerativa, come è ormai la nostra, è un confine ancora troppo mobile, ancora troppo affidato a letture ideologiche o banalizzanti, ancora troppo figlio di una insufficiente capacità di leggere e programmare in prospettiva grandi mutamenti sociali, anche nella cultura della sinistra.
E' necessario assumere per intero la rilevanza dei mutamenti che l'estensione del precariato ha prodotto: sul piano dei diritti individuali e collettivi ha eroso in profondità principi fondamentali di natura costituzionale, a cominciare dal diritto ad una parità di retribuzione a parità di lavoro; ed è accaduto non per via di elusione o evasione del rispetto delle norme, ma con il pieno riconoscimento giuridico della legittimità di tali pratiche. Personalmente ritengo che la legge 30, oltre ad essere iniqua, sia anche oggettivamente lesiva e non rispettosa dei nostri consolidati principi di legislazione del lavoro. Un vero arretramento di civiltà giuridica.
Ma occorre ricordare l'incidenza del fenomeno del precariato sul piano degli effetti economici per la vita delle persone, che incide su progetti di vita, modelli sociali, perfino propensioni al consumo a livello nazionale; e la sua incidenza sul piano degli assetti strutturali e del funzionamento dei sistemi pubblici e privati del Paese, che hanno perso in valorizzazione di saperi e competenze molto di più di quello hanno guadagnato risparmiando sulle retribuzioni. Se fosse possibile una accurata, scientifica misurazione del rapporto costi-benefici del precariato per le Amministrazioni, credo che scopriremmo che tale bilancio è in profondo rosso. Ma anche senza bilance di precisione, tutta la sociologia del lavoro ci dice che governare la complessità relazionale ed economica di una prestazione di lavoro agendo su un singolo elemento porta inevitabilmente a risultati negativi. Incertezza e basse retribuzioni abbattono motivazioni, creatività e produttività, soprattutto nel lavoro intellettuale.
Per non parlare poi del fossato generazionale tra vecchi garantiti e giovani senza certezze: che vuol dire senza progetti, senza aspettative, senza speranze. Abbiamo permesso che la nostra sicurezza, per quanto piccola e relativa, fosse costruita a spese dell'insicurezza dei nostri figli.
E ricordo infine le dure conseguenze di questa situazione sugli assetti contrattuali, tali da modificare di per sè il peso e l'efficacia della contrattazione collettiva. Escludendo quote crescenti di lavoratori dall'ambito del lavoro dipendente e tutelato si mina alla radice l'identità solidaristica della contrattazione e del sindacato confederale. Si pongono le condizioni per una competizione impropria tra garantiti e non garantiti. Si innestano contraddizioni nuove ed inedite nel corpo della società, di cui non si sente proprio alcun bisogno. Si impoverisce e si radicalizza, al tempo stesso, il dialogo sociale.
Per tutte queste ragioni, si rende evidente che il precariato non è materia ordinaria; è ormai un'emergenza sociale.
E' una lama che incide in profondità sui modelli sociali e gli orientamenti culturali del Paese, e rappresenta dunque una priorità di intervento che va ben oltre l'immediato, e si proietta nel lungo periodo nei tempi distesi di una capacità di governo e programmazione politica del futuro dell'intero Paese. Un vero banco di prova della capacità della politica di guardare oltre l'oggi.
Un progetto organico sul precariato deve aggredire, con tempi e forme differenziate, i nodi strutturali e istituzionali che ne permettono l'esistenza e la riproduzione. La legge 30 è il supporto normativo più evidente e visibile, e in qualche modo paradigmatico, su cui intervenire, ma non è l'unico. Credo che abbiamo bisogno di un ripensamento più generale delle normative del lavoro, ad esempio la 368 sul tempo determinato, le norme sull'apprendistato, il rapporto tra formazione e lavoro. La linea generale dovrebbe essere quella di una riduzione estesa delle possibilità di flessibilità, circoscrivendone la causali di applicazione e la durata, e al tempo stesso di un loro disincentivo, rendendole non convenienti rispetto alla forma generale del rapporto a tempo indeterminato; salvo dove, davvero, sussistano ragioni specifiche e straordinarie che richiedano rapporti flessibili e temporanei.
Oltre che sul piano delle normative generali, a me pare evidente che, anche nei settori della conoscenza, sarà necessario un intervento legislativo mirato, ma ad ampio spettro, che rivisiti molti aspetti specifici, di cui cercherò adesso di dare conto.
La prima idea che dovremmo condividere con la politica è dunque quella di un intervento in profondità sulla normativa del lavoro che capovolga la filosofia utilizzata in questi anni, facendo anche una riflessione critica su quanto il centrosinistra ha comunque prodotto al tempo del proprio governo. Esiste un'opinione diffusa, che addebita al centro-sinistra alcuni peccati originali da cui si sarebbe sviluppato successivamente, moltiplicandolo a dismisura, il liberismo incontrollato. Parlo, ad esempio, della legge Treu. Io non credo vi sia continuità o condivisione di volontà politiche esplicite tra scelte del precedente centrosinistra e poi del centro-destra. C'erano punti di ambiguità e non chiarezza nelle scelte del vecchio centro-sinistra, punti che oggi non possono più ripresentarsi, dopo l'amara prova delle loro estreme conseguenze. Qualcuno ha scambiato a suo tempo la deregolazione del lavoro con la modernità, magari ascoltando più le sirene di Confindustria che la voce della Cgil. Credo che avere allora, nei tardi anni '90, rimosso i vincoli della vecchia legislazione, che sottendevano filosofie di fondo e anche valori storicamente consolidati, quelli della tutela e garanzia della parte più debole all'interno di una rapporto di lavoro, abbia incoraggiato la crescita di un filone culturale e ideologico che con il centrodestraè diventato una valanga. Spesso le valanghe nascono da un sassolino.
Quest' approccio va oggi radicalmente rovesciato, riportando le tutele e il lavoro stabile ad essere la bussola del nostro diritto del lavoro. Da questo punto di vista, la riflessione critica sugli approcci legislativi deve tenere in debito conto il fatto che i vincoli esprimono valori, visioni del mondo e assetti di sistema, e non solo, pragmaticamente, le condizioni più favorevoli di esercizio di un'impresa.
La nostra libertà nasce dalla limitazione della libertà degli altri, ed i vincoli vanno vissuti in questa chiave: protezione dei diritti dei tanti dall'abuso dei pochi.
Sul piano politico, quanto è accaduto in Francia con I CPE dovrebbe dirci qualcosa. La Francia non è certamente un Paese arretrato, improduttivo, nè immaturo sul piano della democrazia. Eppure il movimento giovanile, e poi politico-sindacale, che è cresciuto intorno ai CPE esprime il rifiuto di un'alterazione delle regole del rapporto di lavoro, di un provvedimento che non è neppure lontanamente paragonabile con il dettato della legge 30. Eppure anche in Francia c'è un Governo che è sicuramente più vicino al centro-destra che al centro-sinistra. Cosa vuol dire allora, in una società avanzata, con un'opinione pubblica non necessariamente di sinistra, tenere fermi i vincoli di un'equilibrio normativo che non consente cedimenti sul piano dei diritti del lavoro? Penso che Italia e Francia siano purtroppo, a mio avviso, molto diverse per le condizioni socio-istituzionali. Ma il ritrovarsi di un Paese intorno ad alcuni valori-guida condivisi, come la necessità di garantire il futuro ai giovani, dovrebbe superare gli interessi di bottega delle parti e diventare il cuore di una politica in cui l'intero Paese si identifica.
In questo senso, noi diciamo che è possibile e proponibile un rovesciamento di ottica che conduca a definire il precariato come forma straordinaria di prestazione, e ipotizzi una ri-normazione del lavoro tale da ricondurre le molteplici forme della precarietà non giustificata ad un'ordinaria, normata prestazione di lavoro subordinato. La Spagna sta diventando un ricorrente assillo per il riformismo europeo moderato. Ma sarà comunque utile ricordare che pochi giorni fa una paziente trattativa tra le parti sociali ha condotto di comune intesa a decidere che due contratti a termine consecutivi si trasformano in un contratto a tempo indeterminato. Certo non è la soluzione del precariato italiano, ma è un esempio significativo di metodo e di volontà politica in una realtà difficile come quella spagnola.
E' possibile, allora, introdurre il tema ulteriore di una ri-contrattualizzazione del lavoro precario, ricostruendo la possibilità, nel settore pubblico, di farne oggetto di contrattazione all'Aran? Riportarlo alla normalità di ciò che quasi sempre realmente è, un lavoro subordinato, e magari riassimilarlo al lavoro a tempo determinato? Secondo noi, i Contratti dovrebbero applicarsi anche a questo personale. Non parliamo della Luna: parliamo del fatto di restituire al lavoro ciò che gli è stato impropriamente sottratto, e che crea diseconomie e infelicità.
Capiamo bene che da tale scelta derivano costi non marginali di adeguamento retributivo, ma la domanda successiva chiede se lo Stato ritiene di rimanere a regime, nei fatti, erogatore di trattamenti discriminatori e portatore di pratiche di dumping sociale. Domanda, mi pare, di qualche rilevanza istituzionale e costituzionale. nonchè di qualche conseguenza etico-politica nel rapporto tra Stato e cittadini-produttori. Se lo Stato, cioè, possa comportarsi, pur nei limiti della legittimità, come il padroncino che rispetta la forma ma crea sofferenza e disuguaglianze.
Sul piano procedurale, riportare il precariato a contrattazione significa seguire le medesime procedure che si utilizzano in tutto il Pubblico Impiego: esiste un monte-salari reale già impiegato oggi, che può essere preso a base per il calcolo delle disponibilità economiche su cui costruire la graduale omogeneizzazione degli elementi retributivi e normativi di questo personale e dei relativi incrementi, e costituire il plafond per l'armonizzazione dell'insieme degli istituti contrattuali.
Per noi, parlare di precariato significa anche parlare di assetti organizzativi e
istituzionali. E' da tali assetti, dalla loro concreta progettazione e attuazione,
che discendono le forme possibili e reali dei rapporti di lavoro. Oltre alla
precarietà in senso stretto, in questi anni i cicli e le filiere del lavoro, pubblico e
privato, si sono scomposti senza controllo, ben oltre una ragionevole misura di
efficienza e risparmio. L'esternalizzazione di parti sempre più consistenti delle
attività istituzionali non sembra trovare, nella maggior parte dei casi, alcuna
giustificazione economica nè di risparmio, almeno per quanto riguarda le
Amministrazioni pubbliche. Sembra, viceversa, corrispondere più ad una forma
di aziendalizzazione e di controllo d'impresa, che non appartiene alla missione
istituzionale del pubblico. Un po' di cedimento all'ideologia di moda, un po' di
concretissimi interessi, un po' di tentativo di navigare tra i crescenti vincoli di
spesa della finanza pubblica. Soprattutto, con il centro-destra, una quota
importante di volontà politica, tesa a incoraggiare la crescita del privato a spese
del pubblico. L'esternalizzazione di attività va di pari passo con la quota
crescente di risorse destinate dalle Finanziarie a scuole e università private.
E, in controtendenza, anche la centralizzazione dei centri di spesa, attuata con l'istituzione della Consip, per quanto contraddittoria con il federalismo proclamato, ha prodotto aggravi di spesa e inefficienza dei servizi resi.
L'esternalizzazione, lo spezzatino dei rapporti di lavoro, il dumping contrattuale non sono aspetti della modernità e dell'efficienza. Sono il modo moderno attraverso cui si realizza una ripartizione inefficiente di profitti e una rottura delle filiere del lavoro. Anzichè razionalizzare il funzionamento della Pubblica Amministrazione, si appalta a privati un servizio che viene affidato alle logiche di mercato, inevitabilmente meno efficace e più costoso del pubblico, salvo che venga realizzato attraverso l'evasione contrattuale.
Per questa ragione, la FLC pone al centro della propria iniziativa un'ipotesi di ricostruzione delle filiere della conoscenza in tutte le loro articolazioni, capace di ricomporre dentro contenitori contrattuali unici o coordinati tutte le attività che appartengono e contribuiscono alle istituzioni e realtà di produzione e trasmissione del sapere.
Dentro queste due coordinate fondamentali, l'equilibrio tra necessari interventi legislativi e intervento sindacale, e la ricomposizione dei cicli del lavoro, si collocano le nostre richieste di intervento.
Un primo appuntamento essenziale sarà costituito dal DPEF e dalla prossima Finanziaria. Si comprenderà in questi provvedimenti se il nodo della relazione tra risanamento e investimenti è sciolto, come noi crediamo debba essere, in modo positivo, collocando in parallelo e non in sequenza questi due momenti. Ci attendiamo che la Finanziaria contenga sostanziosi elementi di investimento in risorse umane e finanziarie, che diano il segnale di una visibile inversione di tendenza con il passato recente.
Per tutti i settori del sapere, il nodo problematico da sciogliere in via strutturale è quello del rapporto tra programmazione ed accesso del personale.
Programmazione dell'offerta di istruzione,formazione e ricerca, e la relativa quantità di accessi ai diversi sistemi necessaria a mantenerne l'equilibrio, tenendo conto delle uscite e dello sviluppo in itinere delle risorse intellettuali.
Nel passato l'equilibrio, sebbene deficitario, era assicurato da una crescita parallela della domanda formativa e di ricerca, della disponibilità di risorse umane e di risorse finanziarie dedicate. Man mano che la scuola e l'università di massa crescevano, crescevano contemporaneamente le nuove leve di docenti e ricercatori, così come gli investimenti pubblici necessari. Non c'era neanche allora un rapporto tra programmazione dell'offerta e previsione degli accessi, ma in una fase espansiva il sistema ha offerto per molti anni uno sbocco alla domanda di lavoro intellettuale, magari con liste di attesa e qualche sofferenza.
Con il taglio drastico dei finanziamenti, con i blocchi delle assunzioni, il sistema di reclutamento si è bloccato.
Si pongono oggi problemi complessi, che vanno risolti nel medio-lungo periodo; ad esempio, c'è indubbiamente un deficit storico di cultura tecnico-scientifica ed una prevalenza di discipline umanistiche che continua a perpetuarsi, rispetto alle quali la docenza nella scuola continua a rappresentare il principale canale di sbocco occupazionale. E' necessaria un'opera di riorientamento che arricchisca in prospettiva la nostra dotazione di risorse tecnico-scientifiche.
Davanti a noi abbiamo però un nodo da sciogliere in tempi brevi: ricostruire un percorso di accessi che risponda ad almeno tre esigenze:
Per quanto riguarda la scuola statale, occorre intervenire con una sostanziosa stabilizzazione delle graduatorie, che tenga conto delle carenze di organico e delle uscite avvenute ed annunciate; noi pensiamo ad una dimensione di 100.000 persone. La scuola statale è forse il punto meno spinoso del precariato della conoscenza, nonostante le dimensioni, almeno dal punto di vista del bilancio dello Stato, perchè l'immissione in ruolo ha costi molto contenuti rispetto alle supplenze, e sposta a due anni dall'immissione un incremento di costi dovuti alla maturazione degli scatti stipendiali. Del resto, le forti uscite previste nei prossimi anni, con anzianità elevata e retribuzioni conseguenti, compensano ampiamente i costi dell'immissione in ruolo, talchè è agevole prevedere una netta riduzione del costo del personale a parità di organici. Per il futuro è necessario prevedere meccanismi che tengano il reclutamento agganciato all'effettiva domanda di istruzione e all'offerta formativa che i mutamenti postulati dalla scuola dell'autonomia prevedibilmente produrranno; ed evitare, come è accaduto in questi anni con la gestione Moratti, che, una volta sgonfiato il serbatoio dei precari attraverso le immissioni in ruolo, esso ricominci a gonfiarsi per effetto di nuovi ostacoli alla fluidità nel tempo di un reclutamento costante.
E' necessario ripensare i meccanismi di accesso e formazione previsti dall'art. 5 della L.53, laddove istituiscono, dopo i 5 anni di università, l'anno di praticantato e successivamente l'esame per l'accesso, prevedendo peraltro concorsi ogni 3 anni. La norma va resa inefficace da subito. Con il blocco ad esaurimento delle graduatorie permanenti cala la mannaia tra chi è già inserito e chi non potrà più accedervi, rimanendo legato all'unico meccanismo dei concorsi per l'immissione in ruolo. Con questo meccanismo le supplenze perdono qualsiasi utilità ai fini dell'accesso, e diventano istituzionalmente puro precariato, un periodo di limbo di durata indeterminata da far passare in qualche modo in attesa di poter accedere ad un concorso; se e quando ve ne sarà capienza. Con l'istituzione di tale meccanismo di accesso, la scuola mutua gli aspetti peggiori e più discrezionali dell'università e della ricerca, rendendo il reclutamento un fatto casuale, slegato dalle effettive necessità di sistema e interamente affidato alla discrezionalità del decisore politico di turno. Noi pensiamo che la bonifica normativa richiesta debba, tra l'altro, superare la distinzione tra le supplenze necessarie a coprire le vacanze organiche in ruolo e i posti aggiuntivi, che hanno oggi scadenze diverse, rispettivamente a fine agosto e a fine giugno. Lo spostamento di numeri consistenti sui posti aggiuntivi, come è accaduto con la Moratti, ha un sapore esplicitamente discrezionale che non si attaglia alla necessità di programmazione postulata dalla scuola dell'autonomia. Così come occorre provvedere al ristabilimento di un più efficace quadro procedurale per l'azione amministrativa di supporto, che, nell'individuare l'ambito regionale e quello di singola scuola come ambiti operativi, ha prodotto un affaticamento rilevante e una perdita di efficienza e tempestività delle procedure. Per il personale ausiliario, noi riteniamo che sia necessario ripristinare il ricorso alle graduatorie di scuola per la copertura delle supplenze, superando il ricorso alle liste di collocamento, non funzionali ai tempi e alle esigenze della scuola. E sarebbe anche tempo di sanare la situazione dei docenti inidonei, che, senza alcuna responsabilità, rischiano il licenziamento, senza alcuna rete di protezione.
Per i lavoratori della scuola non statale e dei settori privati, esposti senza mediazioni all'andamento del mercato, vanno previsti ammortizzatori sociali a protezione dal rischio di perdita del posto di lavoro, ripensando anche l'estensione degli strumenti di welfare verso le prestazioni di lavoro diverse dal tempo indeterminato e dal lavoro standard. Vogliamo ricordare che nella Formazione Professionale, ad esempio, la grande maggioranza dei lavoratori non è a tempo indeterminato, e ha anzi contratti di prestazione d'opera, e vive una condizione di precarietà permanente che non attiene solo alla forma giuridica del rapporto di lavoro, ma all'incertezza della sussistenza di un posto.
La questione si è aggravata con i meccanismi di accreditamento previsti dalla normativa vigente, che hanno prodotto un caos di soggetti accreditati a prescindere da una reale credibilità dei soggetti coinvolti. Nella scuola non statale, la logica del libero mercato ha prodotto una rincorsa all'abbassamento delle condizioni di lavoro, dei diritti contrattuali, delle tutele.
E' evidente che si renderanno necessarie, nella transizione, regole utili a governare la complessità dei passaggi intermedi verso un sistema a regime.
Per l'università e la ricerca, nelle differenze che pure esistono, vi sono alcune grandi linee comuni di intervento legislativo. I due settori sono accomunati dalla presenza di un precariato di enormi proporzioni, che si può stimare intorno al 50% del personale in servizio, precariato che si articola in tutte le forme possibili ed immaginabili, fino ad arrivare al lavoro gratuito nel laboratori pur di potere accedere al sistema università-ricerca. A differenza della scuola, si tratta in gran parte di finto lavoro para-subordinato, che come tale sfugge a qualsiasi normazione contrattuale nazionale. E le forme della prestazione di lavoro si estendono ad aree che non dovrebbero, ai sensi della normativa, essere considerate lavoro, neppure para-subordinato, ma che tuttavia, nei fatti, spesso lo sono: parlo dei borsisti, degli assegnisti di ricerca, dei dottorandi, degli specializzandi. Le ragioni di questa autentica giungla in cui la nozione tradizionale di lavoro non è solo sbiadita, ma del tutto smarrita, sono eminentemente strutturali, e attengono alla riduzione costante dei finanziamenti, al blocco delle assunzioni e alla contemporanea crescita della domanda e dell'offerta formativa delle università. Oltre che ad un uso spregiudicato della precarietà da parte degli Atenei ed Enti.
Sono noti, e non occorre richiamarli in dettaglio, gli effetti di tale situazione sul
patrimonio intellettuale, che pure viene faticosamente coltivato e continua
testardamente a voler sopravvivere, nonostante ogni sforzo per sopprimerlo: a
cominciare dalla fuga delle energie migliori. Occorre qui uno sforzo
straordinario, teso, come nella scuola, ad un necessario recupero di forze
fresche, poichè in questi settori l'invecchiamento e l'uscita del personale in
servizio è, proporzionalmente, addirittura superiore. In pochi anni la metà dei
docenti e ricercatori in attività sarà pensionato, senza possibilità di trasmettere
le competenze e saperi acquisiti. Il vuoto di accesso ai sistemi ha già saltato
due o tre generazioni, e sarà comunque difficile colmarlo. Se non si provvede
subito, sarà del tutto impossibile. Per questo diciamo che serve un piano che
preveda 30.000 assunzioni tra università e ricerca. Ricordiamo che
nell'università esistono circa 50.000 docenti in ruolo, e circa 40.000 a contratto,
per dare un'idea delle dimensioni dei fenomeni. Se da tale cifra si esclude la
piattaforma "storica" dei contratti di insegnamento non stabili già presenti nei
primi anni '90, prima dell'esplodere del precariato, stimabile allora in circa
10.000 unità, e si esclude il gonfiamento dovuto all'impropria moltiplicazione
dell'offerta formativa recente, nonchè alle ampie sacche di clientelismo e scarsa
qualità, possiamo accettabilmente ipotizzare un numero di accessi necessari in
circa 20.000.
Tenendo conto della necessità di un'analoga immissione di ricercatori degli Enti, si giunge immediatamente alla cifra di 30.000 come operazione straordinaria di compensazione a medio termine. Cifra che postula comunque la parallela ripresa di un reclutamento ordinario e programmato, superando i blocchi del turn-over. Anche qui come nella scuola, ed anzi in misura ben maggiore, vale l'argomentazione della compensazione dei costi tra chi esce e chi entra: ogni professore ordinario pensionato vale mediamente 2,5 accessi al sistema. Si potrebbe ben ipotizzare un'operazione di anticipazione straordinaria di cassa agli Atenei ed Enti per finanziare il piano di assunzioni.
Sarebbe un modo per rendere visibile, anche in periodi di vacche magre, la volontà politica di un investimento destinato comunque in pochi anni a rientrare a parità di costo.
Ma, al di là degli accessi, è urgente un'opera di razionalizzazione e pulizia normativa che restituisca certezza dei percorsi formativi e aderenza tra strumenti normativi e obiettivi. Sappiamo bene che non tutto il precariato è uguale. Che accanto ai meritevoli penalizzati da questo stato di cose, ci sono anche in quest'area vaste zone grigie di privilegio e clientela, per le quali, dopo il necessario comune Purgatorio, si spalancano le autostrade del Paradiso, precluse ai non protetti. Per questo diciamo che, dopo le fasi della formazione, come il dottorato e la specializzazione, per le quali è tuttavia necessaria una specifica normazione che stabilisca diritti esigibili, occorre prevedere un percorso di accesso; percorso basato su un unico, o quanto meno largamente prevalente, tipo di contratto, un vero contratto di lavoro; di durata predeterminata, con caratteristiche di inserimento al lavoro docente e di ricerca, al termine del quale una valutazione rigorosa dell'attività svolta consenta l'accesso in ruolo ai sistemi. Con tempi utili e sufficientemente precoci per potere scegliere altre strade se lo sbocco non deve o non può essere l'università o la ricerca pubbliche, evitando il dramma di chi, precario fino ai 40 anni e oltre, non ha poi nessun'altra scelta se non inseguire disperatamente la stabilizzazione ad ogni costo. Cosa che fa male alle persone e fa male ai sistemi.
Insisto sul termine "valutazione rigorosa", perchè è tempo che ritorni a regnare nei nostri sistemi un'etica accettabile, in luogo delle vergognose, finte pratiche concorsuali in uso. Non è questa la sede per parlare di riforma dei concorsi pubblici. Ma è tempo di dire che si deve porre fine a infinite selezioni, tutte truccate, o meglio, tutte già finalizzate. E se ai giovani, fin dall'inizio, si propone la prospettiva di un gioco truccato in partenza, quale speranza, anche agli entusiasti, sarà possibile comunicare? Una cultura cinica e connivente che pretende di contaminare di sè anche chi è ne è ancora immune. E' tempo che, a partire dalle piccole cose della vita quotidiana, come i concorsi per l'accesso, si trovi l'ispirazione e la forza per rompere la dannazione della mediocrità e del cinismo. Cominciare da quelli per l'accesso, perchè è lì che si bolla per la vita il raccomandato e il meritevole, che poi saranno insieme dentro lo stesso sistema per sempre, e connoteranno di sè il sistema. Senza dimenticare il resto dei concorsi per le progressioni di carriera, che sono lo sviluppo naturale di premesse distorte.
Anche qui, come nella scuola, è necessario un legame esplicito e previdente tra programmazione degli accessi, programmazione delle risorse finanziarie, monitoraggio attento dell'evoluzione di domanda e offerta. Anche qui, l'impetuoso affollamento dei pensionamenti prossimi venturi è figlio di un reclutamento che, 30 o 40 anni fa, fu condotto a colpi di sbottigliamenti improvvisi e ciclici, in cui entravano di colpo migliaia di persone, seguiti da lunghi blocchi. Paghiamo oggi, anche con questo precariato, l'incapacità di chi allora non seppe programmare uno sviluppo graduale, armonico, modulato nel tempo, delle risorse umane e intellettuali. Tenderei a dire che oggi non si deve ripetere il medesimo errore. E serve per questo un reclutamento programmato nel tempo, con criteri di qualità. Questa ragione mi fa anche dire che la politica del reclutamento dovrebbe essere considerata, da parte di Atenei ed Enti, investimento strutturale e permanente da prevedere nei propri bilanci, alla stregua delle altre voci fisse di spesa, come gli ammortamenti o gli stipendi.
Sarebbe quindi utile fissare per norma un vincolo per Enti ed Atenei ed una misura minima, di cui definire entità e criteri, del bilancio di queste istituzioni specificamente dedicata alle spese per formazione e reclutamento.
Per università e ricerca sono numerosi gli interventi legislativi necessari, ma ci limitiamo qui a ricordare quelli relativi al capitolo precariato. Una rilevanza particolare, per la sensibilità politica che ha suscitato in un vasto quanto inedito movimento di opposizione, riveste la legge sullo stato giuridico della docenza universitaria. Sebbene presenti effetti differiti nel tempo, la soppressione della terza fascia docente e il suo mancato riconoscimento come ruolo di docenza prefigurano un effetto devastante per l'università dei prossimi anni, laddove comportano in via strutturale la scelta del precariato permanente come mezzo ordinario di reclutamento. Una piccola quota di docenti stabili, che governano l'istituzione, e una vasta platea di docenti a contratto, non valutati, non scelti sulla base dei curricula e della qualità, sostituibili e intercambiabili. In una parola, la fine dell'istituzione universitaria. Non si poteva scegliere di meglio per demolire l'alta formazione pubblica. Questa legge va abrogata senza esitazioni, e va aperto un tavolo di consultazione che affronti l'impegnativo tema dello stato giuridico, della contrattualizzazione, dei meccanismi di reclutamento.
Per l'AFAM si tratta di rivedere alcune impostazioni che la legge di riforma, la 508, legge sofferta arrivata dopo un dibattito ultradecennale, ha fissato in un equilibrio quantomai contraddittorio e discutibile. Mentre si definisce la sostanziale parità tra Accademie, Conservatori e sistema universitario quanto al valore dei titoli di studio rilasciati, la legge introduce per i docenti la messa ad esaurimento, e stabilisce che tutto il futuro reclutamento debba avvenire con contratti a tempo determinato di durata quinquennale. Credo non esista, nell'Occidente avanzato, una norma tanto bizzarra e immotivata in sistemi paragonabili. Sembra davvero uno scherzo puerile e maligno nei confronti di chi si vuol applicare all'arte e alla musica. Se pensiamo allo scempio che in questi anni si è fatto della promozione dell'arte e dello spettacolo, capiamo che c'è in queste scelte la tendenza di una parte del Paese che realmente vuole cancellare e annullare la ricchezza e la bellezza di un patrimonio incomparabile.
Ridotte le orchestre, tagliati i finanziamenti al teatro e al cinema, cancellata qualsiasi sovvenzione pubblica all'arte figurativa, dove dovrebbe trovare sbocco un giovane di talento artistico, se anche l'insegnamento, estremo presidio e continuità della nostra tradizione, viene precluso come prospettiva stabile?
Occorre qui un intervento risoluto di ri-normazione che cancelli questa scelta miope, e restituisca alla nostre prestigiose istituzioni artistiche e musicali la piena dignità di un settore riconosciuto importante per la vita culturale e spirituale del Paese.
Fin qui, il necessario intervento legislativo di cancellazione e di proposta, inevitabile per potere ripensare ad un accettabile assetto strutturale dei nostri sistemi.
Sul piano dell'intervento sindacale e contrattuale, dobbiamo tuttavia predisporre con grande chiarezza di intenti e condivisione un piano di lavoro fatto di obiettivi e priorità, da realizzare in tutti i nostri territori e a livello nazionale, in questo mandato congressuale.
Il primo obiettivo contrattuale per tutti i nostri settori è l'estensione dell'ambito delle tutele e diritti per i precari. I contratti dell'università e della ricerca hanno fatto significativi passi avanti in questa direzione, nonostante i vincoli di rappresentanza che oggettivamente sussistono, avanzamenti che occorre mutuare in tutti i contratti della FLC, a cominciare da F.P. e scuola non statale. Siamo consapevoli dei vincoli che ci derivano in questo campo dalla legislazione vigente nel settore pubblico; vincoli viceversa tutti legati ai rapporti di forza e al potere contrattuale nel privato. Siamo però fortemente convinti della necessità di dare al tema del precariato la priorità numero 1 nel nostro agire, sia per ragioni di solidarietà confederale, sia perchè crediamo che in questo campo si situa davvero una sfida per il futuro del sindacato. Per questo, i prossimi contratti nazionali dovranno lavorare sull'allargamento degli spazi già ottenuti, sfruttando al massimo gli ambiti che la legislazione consente, parallelamente ad una revisione legislativa che restituisca anche il lavoro precario alla piena titolarità della contrattazione.
Ma dovremo anche provare ad esplorare aspetti inediti della contrattazione di primo livello, quella nazionale; ad esempio provando, con gli interlocutori nazionali, (il MIUR per la scuola, la CRUI per l'università, la Conferenza dei Presidenti per gli Enti di Ricerca, di nuovo il MIUR per l'AFAM, la Conferenza delle Regioni per F.P.) a proporre schemi di intesa sulla normazione contrattuale del precariato.
Gli spazi del contratto nazionale devono essere utilizzati, in ogni realtà territoriale, in ogni Amministrazione, in ogni azienda, per costruire piattaforme rivendicative specifiche, necessariamente diverse tra loro, ma caratterizzate da elementi unificanti che attengono ai diritti minimi, alla retribuzione minima, alle regole di inquadramento professionale. Già nel 2003 lo Snur aveva costruito, insieme con Nidil e l'Associazione dei Dottorandi, una piattaforma-tipo per la tutela del lavoro precario. Già abbiamo importanti esperienze in cui si sono normati salari e inquadramenti, ferie, maternità, festività, orari, seppure nell'ambito di un lavoro para-subordinato. Mentre all'Aran, nella contrattazione nazionale, è per ora preclusa la rappresentanza e la normazione del lavoro para-subordinato, nulla impedisce che le singole Amministrazioni scelgano liberamente, dentro un rapporto contrattuale, di normare i trattamenti delle persone che prestano ad ogni titolo servizio presso di loro. Chiediamo quindi a tutte le nostre strutture di attivarsi in ogni realtà per costruire, insieme con i precari, piattaforme specifiche nei luoghi di lavoro.
Abbiamo il problema della rappresentanza, anche qui, per ora, non risolvibile in via istituzionale, per le stesse ragioni prima ricordate: i precari, in quanto nonlavoratori, non rientrano nei canali ufficiali elettivi della rappresentanza sindacale. Nell'università e nella ricerca non vi rientrano neanche i tempi determinati, sebbene portatori di contratti pluriennali, per l'opposizione ostinata di Cisl e Uil, che temono evidentemente una nostra maggiore rappresentatività.
Ragione, per la verità, non molto nobile per negare il diritto di espressione a persone che spesso lavorano per anni e anni nello stesso posto di lavoro.
Non intendiamo aspettare modifiche legislative. Vi chiediamo, da subito, di aprire una campagna di elezioni tra i lavoratori non rappresentati, che siano precari o tempi determinati, per individuarne rappresentanze specifiche, rappresentanze che intendiamo incorporare nelle nostre strutture di ogni singola Amministrazione o realtà lavorativa , che intendiamo fare partecipare alle delegazioni di trattativa locale. Non vuole essere una fuga in avanti, ma l'espressione della volontà di supplire ad una normativa inadeguata a rappresentare il mondo del lavoro, facendoci carico, noi che pretendiamo di essere sindacato generale, sindacato di tutti, del primo cerchio degli esclusi, coloro che ci stanno accanto e non hanno voce per parlare. E' un'operazione delicata, che richiede rispetto ed attenzione, e deve porsi in un dialogo aperto con le varie forme della rappresentanza laddove già esistenti.
Per attuare questo piano di lavoro abbiamo bisogno di attivare una serie di iniziative:
Su queste linee di modifica legislativa, su queste proposte di intervento contrattuale ed organizzativo impegnamo tutta la FLC ad una mobilitazione intensa, convinta, di lungo periodo.