6/7 maggio Direttivo Cgil
Relazione introduttiva di Guglielmo Epifani
Bozza non corretta
Il dopoguerra in Iraq ci consegna un quadro a livello
internazionale denso di ombre e rischi per le prospettive di chi
crede in un governo democratico della mondializzazione e di un
ordine fondato sul multilateralismo dei punti di vista e degli
interessi, prospettando davvero per intero la complessità e la
grande dimensione del tempo necessario per conseguire tali
obiettivi.
La guerra si è conclusa in un
tempo più breve del previsto, e questo è un bene.
Le motivazioni per le quali si è
invece aperta si sono rivelate via via più fragili, mentre i nodi
politico-geografici della Regione - come avevamo per tempo
predetto - saranno destinati a ingigantirsi. La non voluta
presenza dell'Onu nel dopoguerra conferma i caratteri di
protettorato da parte dei Paesi belligeranti, mentre si alimenta
il fondamentalismo islamico, resta aperta la tensione fra curdi e
turchi, e si conferma difficile - com'era fin troppo evidente
prevedere - la ripresa di un dialogo fra palestinesi e israeliani.
In questo quadro non ci sorprende
la decisione del nostro Governo che si appresta a mandare uomini
in armi e mezzi, al di fuori del mandato dell'Onu o dell'Unione
Europea, dal momento che questo era stato il motivo della nostra
condanna della scelta annunciata in Parlamento e che,
probabilmente, era frutto di accordi intercorsi fra il Governo
italiano e l'amministrazione degli Stati Uniti già prima che la
guerra scoppiasse.
Tutto questo ci deve spingere a
insistere a muoverci lungo il percorso difficile ma necessario
della costruzione di un nuovo ordine mondiale, senza il quale la
globalizzazione produrrà tensioni crescenti, competizioni senza
regole, riduzione dei diritti e l'inevitabile affermazione del
prevalere del principio fondato sulla forza.
La stessa fase finale della
Convenzione europea appare segnata da queste vicende e dalle
divisioni che si sono prodotte all'interno dell'Unione. Mentre
solo il recepimento costituzionale di una cittadinanza europea
fondata sui diritti e su un assetto dei poteri equilibrato fra le
sedi della sovranità popolare e quelle espresse dai governi, può
consentire lo svolgimento di un ruolo autonomo ed efficace al
proprio interno e in ambito internazionale.
Noi speriamo che il Congresso
della Ces di Praga abbia la volontà e la forza di far pesare il
punto di vista degli interessi del lavoro in questa fase delicata
e decisiva di costruzione della nuova Europa: e questo sarà il
compito che dovremo svolgere unitariamente come delegazione
italiana.
Anche qui da noi in Italia, la
situazione politica, istituzionale, economica e sociale appare
fortemente deteriorata.
Gli attacchi alla Magistratura del Presidente del Consiglio
confermano - da ultimo- l'esistenza di un'idea fortemente
autocratica del potere, che si vuole sciolto dalle leggi e dal
rispetto della funzione autonoma dell'ordine giudiziario. La
stessa idea che troviamo, sia pure su piani diversi, nel
persistere di un forte conflitto di interessi, di una riduzione
della autonomia legislativa del potere parlamentare, di un disegno
scombinato e inaccettabile di riforma dello Stato; e che, passando
per i contenuti delle leggi delega approvate (o in via di
approvazione) definiscono un quadro coerente di governo fondato
sulla divisione sociale e istituzionale, sulla riduzione di ruolo
e di autonomia della rappresentanza sociale e sul primato del
neocentralismo istituzionale.
Può essere
finalizzato anche a questo l'utilizzo di una delega fiscale che,
se preso alla lettera, farebbe venire meno le risorse necessarie
per la qualificazione dello Stato e dei servizi sociali, per le
funzioni di riequilibrio tipiche di un federalismo solidale e
cooperativo e di una crescente riduzione di investimenti nei
settori della formazione, della ricerca e della scuola.
L'economia, in assenza di una politica economica adeguata e di una
evidente incapacità del governo di misurarsi con il coordinamento
dei sistemi complessi e a rete quali le comunicazioni, i
trasporti, l'ambiente, la programmazione negoziata, rallenta,
anche sotto la spinta dei fattori internazionali.
Il Paese conferma visibili e
crescenti problemi di ordine industriale e produttivo, e
l'occupazione mostra caratteri sempre più precari, anche e
soprattutto in quei settori o aziende tutelati fino a ieri da
posizioni di monopolio o di rendita assicurata. La stessa difesa
di retribuzioni e pensioni è messa in discussione dall'assenza di
una vera politica antiinflazionistica con evidenti ripercussioni
sulle condizioni di vita di molte persone e sul livello dei
consumi interni.
Restiamo un Paese in bilico, come altri Paesi europei, e con il
rischio (questo soprattutto italiano) che la finanza creativa
prima o poi possa portarci a scoprire che anche la gestione del
debito pubblico è fuori controllo. Da questo punto di vista non è
senza ricadute, anche sul tessuto dei rapporti fra cittadini e fra
cittadini e Stato, l'assenza di trasparenza e di informazione
certa circa lo stato reale dei conti pubblici.
Tanto più in una fase in cui si comincerà a predisporre il DPEF
per il 2004 e verso il quale mi sembra, innanzitutto prioritario
per noi, riuscire a determinare nel confronto che si aprirà con il
governo un principio di trasparenza e di chiarezza necessario per
le ricadute che questo può avere per tutte le partite che ci
riguardano, in cui sono necessari stanziamenti di spesa, dai
contratti agli investimenti.
Dall'insieme di questi giudizi, l'impressione che se ne ricava è
le cose possono migliorare solo in dipendenza da fattori esterni a
noi, mentre il governo del paese è incapace di proporre una
strategia di uscita dalla situazione fondata sul binomio
qualità-coesione sociale.
Il rischio è quello di diventare
una società, ancor prima che un Paese, fondato su un'idea
malthusiana della competitività e su una sostanziale regressione
delle reti dei servizi pubblici e dei tradizionali legami sociali.
L'uso della risorsa pubblica, infatti, non si muove per rendere
più efficiente la qualità dei sistemi e per regolare meglio i
mercati a più bassa produttività, ma per galleggiare e tenere
insieme un pezzo di consenso sociale, senza priorità e senza
coerenza d'assieme.
A quasi un anno di distanza il Patto per l'Italia funziona solo
per le flessibilità senza contrattazione che ha determinato e per
l'assoluto svuotamento dei rari punti di riforma che conteneva.
Mentre è meglio stendere un velo di silenzio sugli obiettivi di
crescita che si proponeva.
La fase che si apre di fronte a noi, nel mezzo di un ciclo
economico piatto, e a due mesi dalla presentazione dei lineamenti
del DPEF, è quindi quella di tenere alto il fronte della critica,
della nostra capacità di proposta, di utilizzare tutti gli spazi
che si possono aprire per spostare in direzione degli interessi
che rappresentiamo e dei programmi che abbiamo, tavoli di
trattativa, occasioni di confronto. Tenendo insieme la forza della
mobilitazione e l'uso della lotta per mettere in campo risposte di
segno contrario.
Questo è il senso di quello che stiamo facendo in tema di
pensioni. Piattaforma unitaria e tavolo di confronto sono ora al
punto di verifica. Dovremo sapere, fra oggi e domani, se il
governo intende rispondere a Cgil, Cisl e Uil e come, oppure se
vuole prendere tempo puntando al logoramento da tempi lunghi. In
questo caso - e nel caso in cui non si fermasse l'iter
parlamentare - non potremmo sottrarci dal chiedere a Cisl e Uil,
in coerenza con le posizioni unitarie, una risposta di
mobilitazione e di lotta.
La stessa cosa vale per il confronto aperto con la Confindustria
sullo sviluppo. E' chiaro quello che ci proponiamo: spostare
l'asse delle politiche industriali da quello basato su fattori di
costo e di flessibilità, a quello legato alla ricerca,
all'innovazione, alla formazione, alle infrastrutture e a una vera
politica per il Mezzogiorno.
In modo particolare è sulla
formazione che potremmo forse operare, se ci riusciamo, delle
risposte positive in tema di integrazione fra scuola, formazione e
lavoro, in modo da aiutare in questo anche lo svolgimento dei
confronti contrattuali.
Il confronto comunque deve ancora entrare nella fase decisiva. E
per noi farà testo il merito che si potrà definire che, per quello
che ci riguarda, sta dentro i contenuti del convegno dell' 11
febbraio e poi dello sciopero del 21 febbraio contro il declino.
In questo quadro di deterioramento di regole e tutele, e di
disegni di controriforma, non può stupirci il complicarsi del
quadro dei rinnovi contrattuali. Nel settore pubblico a 15 mesi
dall'intesa generale restano fermi tutti i contratti più
importanti. E per questo la categoria, unitariamente, ha
proclamato lo sciopero. Il contratto della scuola, che sembrava
pronto per la conclusione, è ancora in alto mare per nodi
normativi e contrattuali di assoluta importanza, e il nostro
obiettivo è quello di preservare una corretta idea di autonomia
scolastica.
Nel turismo, il contratto è fermo
per i problemi normativi attinenti al recepimento della legge
delega in materia di orari, tempo determinato e flessibilità.
Infine il contratto dei
metalmeccanici, dove si può arrivare - in queste ore - ad una
firma separata fra Federmeccanica, la Fim e la Uilm. E' evidente
la gravità di questa possibilità, per ragioni di democrazia, di
modello di relazioni che prefigura, per le soluzioni che vengono
rimandate all'approvazione dei decreti delegati in tema di durata
dell'orario, formazione, contratti a termine, istituti di
flessibilità e di aumento retributivo con la riproposizione di una
parte di salario di anticipo, che in tal modo diverrebbe
strutturale.
Abbiamo, come segreteria, fatto
sabato un estremo appello per evitare che Federmeccanica compia
questo passo.
Se così non sarà, dovremo aiutare
la categoria lungo due direzioni: il tema della democrazia e
quello della riconquista a partire dai luoghi di lavoro di un
effettivo potere negoziale. Ma penso che dovremo tornarci, con una
discussione che vada al fondo di una crisi dei comportamenti
negoziali, nella più importante area dell'industria e saper
indicare una ragionevole e positiva via d'uscita.
Penso, infatti, che un accordo
separato, in quelle condizioni di merito, rappresenta per la Cgil
innanzitutto una sconfitta delle lavoratrici e dei lavoratori di
quel settore.
La conclusione di questa vicenda,
e più in generale le oscillazioni nei rapporti unitari richiedono
una discussione esplicita.
Noi abbiamo lavorato, come segreteria, per ricostruire accettabili
rapporti unitari a partire dal merito dei problemi. Mezzogiorno,
politica industriale, ambientale, pensioni, la pace, il 1 maggio,
lo sciopero generale prossimo a Reggio Calabria.
Lo abbiamo fatto con pazienza e fermezza.
La stessa fermezza con cui abbiamo denunciato e criticato la
logica degli insulti e delle offese nei confronti di Savino
Pezzotta, al quale rinnovo la più forte solidarietà della Cgil per
quello che è accaduto a Milano il 25 aprile.
Come rinnoviamo la nostra solidarietà in tutti quei casi in cui si
è portata offesa a una persona o a una sede sindacale, di
qualsiasi organizzazione, in qualsiasi luogo.
Ma la difesa del lavoro unitario fatto passa per la coerenza e
l'affidabilità reciproca nel rapporto fra contenuti comuni e
comportamenti conseguenti; e per la volontà che bisogna mettere
nel provare a ridurre i punti di distanza che ci separano su
questioni fondamentali.
L'autonomia è anche la nostra parola d'ordine, così come vorremmo
avere in comune, se non la stessa idea di democrazia sindacale,
almeno regole minime per misurare la rappresentatività nel settore
privato. Su questo punto la nostra intransigenza è figlia di
un'idea alta del pluralismo presente fra i lavoratori e fra le
organizzazioni sindacali.
L'attesa più grande per i lavori del nostro Comitato Direttivo
concerne il tema del referendum.
Anche se in parte attesa, è però
singolare che polemiche, interventi e critiche si siano appuntati
su percorsi che di formale non avevano niente, con descrizioni di
fatti e di indiscrezioni talvolta, per me, incomprensibili.
Per questo e per rispetto dei
poteri del Comitato Direttivo, dopo avere in segreteria nazionale
esposto il punto di vista che ritenevo più coerente e giusto per
le scelte della Cgil, non ho voluto né commentare né esporre
quello che, invece, ho il dovere di sottoporre alla vostra
discussione e al vostro voto.
Aggiungo anche che lo faccio a titolo personale, stante i diversi
orientamenti presenti in segreteria, in tutto legittimi ed
espressi, in quella sede, con modalità e toni di un confronto del
tutto corretto e trasparente.
L'orientamento che propongo al Direttivo di assumere è basato su
tre premesse politiche e una scelta, tutta ispirata - o almeno
questa è la mia intenzione - alla proposizione di un nostro punto
di vista autonomo, a una coerenza sostanziale con le impostazioni
tradizionali della Cgil in materia referendaria, e alla ricerca
della maggiore unità possibile, nella coerenza, della nostra
Confederazione.
La prima premessa riguarda la conferma del giudizio critico sulla
scelta di indire questo referendum, già decisa dal Comitato
Direttivo del giugno 2002. Confermo, in particolare,
l'inopportunità di scegliere la via referendaria per battaglie di
carattere propositivo, nelle quali si smarrisce il senso diretto
delle responsabilità contro cui esso si muove, sottoponendo così
al corpo elettorale il giudizio sulle proprie politiche e sulle
proprie strategie, al contrario di quanto avviene nei referendum
abrogativi scelti per ripristinare diritti o libertà compromessi
da altri e da altre responsabilità.
Allo stesso tempo è evidente che il quesito posto dal referendum
si rivela, da un lato, limitativo della più generale strategia dei
diritti della Cgil (appunto nel suo carattere estensivo) creando
problemi alla tenuta di un fronte sociale dei diritti più
articolato, più vasto e più equo: basti pensare alla urgenza di
arrivare in tempi rapidissimi alla riforma delle protezioni e
ammortizzatori sociali di fronte al persistere della crisi, o alla
soluzione di parte dei problemi oggi vissuto dall'universo delle
collaborazioni coordinate e continuative o dalle false prestazioni
professionali e d'opera. Dall'altro si rivela solo parzialmente
idoneo a rappresentare una reale difesa del diritto a non essere
licenziati senza giusta causa nelle imprese sotto i 15 dipendenti.
Difesa che noi troviamo assicurata in modo più efficace secondo le
vie indicate nel nostro disegno di legge.
A questo bisogna anche aggiungere, per lealtà fra di noi e a
futura memoria, che l'istituto referendario attraversa una crisi
di partecipazione al voto evidente. Ce lo dicono i risultati degli
ultimi dieci anni (un solo referendum ha superato il quorum) e per
ultimo gli esiti del voto dei referendum di Veneto e Liguria in
materia scolastica: rispettivamente 20 e 25%.
Ricordo che i referendum voluti dai Radicali superarono a stento
il 30%, malgrado il nostro impegno e che per questa occasione il
quorum viene alzato per effetto del computo dei cittadini italiani
residenti all'estero.
Tutto questo dovrebbe suggerire al legislatore (come proponemmo
qualche anno fa) di riformare l'istituto e deve a noi darci la
necessità - da affrontare in un altro momento - di regole e sedi
di discussione preventive circa la scelta di adire la via
referendaria da parte di nostre strutture sia di categoria sia
confederali, stante naturalmente il carattere generale di ogni
singola decisione.
Tutto questo spinge naturalmente - ed è la seconda premessa - ad
affermare senza esitazione o tentennamenti il valore strategico
che ha e avrà per la Cgil il contenuto delle nostre riforme
legislative, quelle sostenute dalla campagna di firme e approdate
in Parlamento.
Come abbiamo già detto la nostra
non era né è una scelta di momento o tattica e vive, perciò, come
nostra scelta primaria e fondamentale.
C'è semmai da lavorare per
superare il ritardo nella discussione di massa dei relativi
contenuti, anche perché dove questo si è fatto l'orientamento
produce il consenso e la condivisione generali.
Dall'altra parte - sempre per
lealtà fra di noi - non possiamo neanche fingere di non vedere
come l'azione del Governo e della maggioranza va in senso
diametralmente opposto ai contenuti delle nostre leggi, di come la
legge 30 apra varchi alla riduzione di fatto dei diritti
fondamentali, compreso l'articolo 18, caricando di problemi i
rinnovi contrattuali; e di come, su un altro versante, non tutte
le nostre proposte hanno incontrato condivisione nel fronte delle
forze politiche di opposizione, e quelle in materia di estensione
e dei diritti nelle imprese sotto i 15 dipendenti, l'aperta
ostilità delle associazioni imprenditoriali, dell'industria,
commercio, artigianato e di piccola e media impresa. E questo
nella ricerca di alleanze e di mediazioni politiche e sociali,
potrebbe già oggi, e soprattutto nel futuro, rappresentare un
problema.
Detto questo, e prima di passare alla discussione sulla scelta da
assumere come Cgil, è necessario ancora soffermarsi su una
premessa che è imposta dalla discussione che si è aperta sullo
strumento referendario.
Ho già detto, senza infingimenti e con forza i motivi di critica
severa alla scelta adottata, e anche alla necessità che si
imponeva già prima e che oggi si conferma, della riforma
dell'istituto referendario (numero delle firme da raccogliere,
tempi del giudizio di ammissibilità dei quesiti e il resto). Il
nodo che sta di fronte a noi è però più generale: se si ritiene
inopportuno, e sbagliato, e anche ingannevole un quesito posto a
referendum, che conseguenza generale bisogna assumere?
Si deve ad esempio trarne una conseguenza logica che porta a
disimpegnarsi collettivamente dal confronto democratico, oppure
no?
Pongo il problema perché il problema c'è fuori di noi e forse
anche fra noi. Ed è un problema che ha una sua logica e una sua
forza. A quesito sbagliato, nessuna risposta come è stato
autorevolmente detto.
Ho a lungo riflettuto su questo passaggio, sia nelle sue
implicazioni pratiche che in quelle di carattere generale.
Alla fine mi sono persuaso che per una organizzazione che ha
superato per sé la logica e la concezione della democrazia dei
fini, in base alla quale è la condivisione dei fini che rende o
meno legittimo il mezzo, la norma, la regola, in nome di una
corretta e liberale distinzione fra fini e mezzi, tanto più quando
questi sono di natura costituzionale, la risposta non può essere
questa.
Deve, invece, partire dal rispetto del valore democratico
dell'istituto referendario, che si deve a tutti i quesiti, quale
che sia il nostro giudizio, una volta ammessi dalla Corte
Costituzionale; e fare discendere la scelta dell'organizzazione se
esprimersi o meno, e nel primo caso anche in che modo, basandosi
sul giudizio di merito e su null'altro.
D'altra parte questo è quello che abbiamo sempre fatto.
Ricordo l'84 e le sirene che
indicarono a molti di noi di disertare le urne di quel referendum.
Ricordo che fu lo stesso principio, la stessa etica a non farci
disertare come scelta collettiva i referendum radicali, anche se
sapevamo che il non raggiungimento del quorum ci avrebbe difeso
meglio e con più possibilità di successo. C'è qualcuno di noi che
non pensò allora che a proposito dei quesiti radicali che il
quesito sulla delega non fosse insieme falso, insidioso,
ingannevole e come si dice oggi "una trappola"?
E' dunque il merito e solo il merito, anche se il contesto
generale ha ovviamente il suo peso, a orientare le scelte che
dobbiamo assumere.
Lo quali sono solo due: o pronunciarci come organizzazione o non
farlo, le due scelte che da sempre abbiamo di volta in volta
assunto. "Lasciare libertà di voto o di coscienza" non è
l'espressione giusta perché è evidente che nessuno può lasciare o
negare o riprenderci un diritto di libertà che ogni cittadino ha
di suo, come titolo inalienabile e primario, compresi naturalmente
i cittadini iscritti alla Cgil.
Il merito ci dice, al dunque - insieme con la ovvia considerazione
che si tratta di un argomento di strettissimo interesse sindacale
- tre cose: che il quesito si propone di estendere le tutele
dell'articolo 18, secondo modalità in parte diverse da quelle che
noi proponiamo e per noi meno efficaci; che, indirettamente, il
quesito - se vincessero i sì- avrebbe riflessi sulla difesa e il
mantenimento dell'articolo 18; che il quesito non affronta altri
fondamentali diritti dei lavoratori, anche delle piccole e
piccolissime imprese.
E' sulla base di queste considerazioni - e anche indipendentemente
dalla convinzione che ho, che difficilmente il quorum sarà
raggiunto - che propongo al Comitato Direttivo di assumere
l'orientamento, che a me sembra più logico e conseguente, di un sì
strettamente correlato ai contenuti e al merito del nostro
impianto di riforme.
Un sì per la riforme e per i diritti.
E - lo dico in esplicito - non perché ci sia continuità necessaria
fra le battaglie fatte negli ultimi 18 mesi e il referendum, ma
perché la battaglia che è in campo, la nostra, e deve continuare,
ha bisogno delle persone in carne ed ossa che voteranno sì a
questo referendum.
E' vero che il referendum divide
e per questo non si doveva fare, ma noi non possiamo dividerci da
una parte importante dei sentimenti e degli umori profondi dalle
persone che vogliono essere rappresentate da noi.
Tanto più se volessimo nel futuro proporre o avanzare noi la
scelta referendaria di abrogazione di quelle norme che non
condividiamo.
E aggiungo, inoltre, che anche
per questo è necessario avere verso l'istituto referendario un
atteggiamento costituzionalmente e politicamente molto attento.
Aggiungo ancora due considerazioni.
Interpreto una stessa e comune
motivazione nei pronunciamenti di molte strutture non richiesti e
molte volte da noi fermati.
E ritengo che la scelta contraria, altrettanto legittima e seria,
e cioè quella di non fare oggi pronunciare l'organizzazione per
decidere oggi in questo senso determinerebbe in realtà una grande
prevalenza delle scelte per il sì delle nostre strutture, senza
potere coordinare e governare le modalità di attuazione di questo
orientamento.
E alla fine avremmo una organizzazione molto più divisa e molto
meno coesa di quello che io immagino potrà esserci dopo questo
Comitato Direttivo.
Se questa scelta sarà assunta dal nostro Direttivo e diventerà
orientamento della Cgil, ne conseguirebbe che la Cgil dovrà stare
in campo in questa fase con un profilo rigorosamente autonomo, con
la propria caratterizzazione riformatrice, senza estremismi e
senza chiusure e, naturalmente, senza aderire ai comitati
referendari presenti.
Determinata e serena, aperta al confronto con l'impresa minore,
soprattutto nei territori, nel nome del comune interesse a
contrastare la politica economica del Governo, e a far crescere
nelle piccole e medie imprese qualità e riconoscimento dei diritti
e delle tutele di chi lavora.
Il sì per le riforme esige che il
fronte sociale che il referendum può restringere venga tenuto
costantemente aperto.
D'altra parte, andrà detto con
più forza che non si può guardare all'impresa di oggi sotto i 15
dipendenti - e ancora di più a quella di domani - con gli occhi
degli anni 70. Tanto più con la nuova legge che accentua la
disarticolazione dei rami aziendali.
Care compagne e compagni, vi chiedo di discutere liberamente e
tranquillamente della proposta che avanzo e poi di decidere.
Avverto l'importanza di questa discussione e delle scelte che
dobbiamo assumere. Non vedo però davvero i margini per
drammatizzazioni, o divisioni profonde.
Le abbiamo avute, altre volte, a
ragione, nel passato.
Oggi non ne vedo né il clima e né le condizioni. Discutiamo
serenamente e responsabilmente decidiamo.
Io per primo ho rispetto per opinioni diverse da quella che ho
sostenuto e delle quali, però, sono profondamente convinto.
Usiamo tutti lo stesso rispetto, per rispetto fra noi e
soprattutto per la Cgil che è ancora al centro di attenzioni,
polemiche e attacchi non propriamente amichevoli.
E soprattutto non disperdiamo anche noi - come molti provano e
proveranno a fare - quello che abbiamo fatto in questi anni con la
segreteria di Sergio Cofferati al quale voglio rivolgere e
rinnovare i sensi del mio affetto e stima.
E ricordiamoci tutti che tutti siamo legati da mandati che abbiamo
ricevuti dal nostro Congresso e per primo, naturalmente, il vostro
segretario.
Voglio infine porre a me e al Comitato Direttivo una domanda che
mi pare sempre più pressante: di fronte alle tensioni democratiche
e istituzionali di questi giorni, dopo le dichiarazioni di ieri
del Presidente del Consiglio che sembrano voler aprire una
campagna elettorale lunga almeno un anno, di fronte a un'economia
che non va, a contratti separati che possono aprire scenari visti
cinquant'anni fa, davvero è la scelta di come votare a un
referendum che probabilmente non avrà effetti diretti, il cuore
fondamentale del nostro dibattito, delle nostre scelte e delle
nostre priorità?
Io penso davvero di no.
E se così è, dopo aver discusso e
deciso, mettiamo l'unità e la forza della Cgil al servizio di
quello per cui c'è bisogno di spendersi assieme. |